È dicembre e io sono impegnata in una fitta corrispondenza
coi tagiki per la spedizione che sto organizzando per l’estate in Pamir e nel
Wakhan Afghano, quando spulciando in internet trovo delle foto di Dabous, e mi
si riaccende nella mente la scintilla che mi era scattata anche per Gonoa e
Niola Doa quando avevo deciso di andare in Chad.
Le Giraffe di Dabous sono due petroglifi a grandezza naturale, i due più grandi conosciuti al mondo raffiguranti animali, e si trovano in Niger nel cuore del Sahara ai bordi del massiccio dell’Air vicino al deserto del Tènèrè. “Tènèrè”, letteralmente vuol dire “dove non c'è nulla”, è infatti un deserto che si estende per migliaia di chilometri, ma questa traduzione letterale smentisce la sua vera essenza, infatti per oltre due millenni, il popolo Tuareg ha gestito la rotta commerciale trans-sahariana che collega le grandi città sul bordo meridionale del Sahara attraverso cinque rotte commerciali del deserto verso la costa settentrionale dell'Africa. Si tratta quindi di un deserto tutt’altro che deserto bensì vivo e popolato, dove già prima dei Tuareg, la vita si è evoluta in varie forme. Una prova di questa evoluzione la si trova in cima a un piccolo colle roccioso solitario. Qui, dove il deserto incontra le pendici delle montagne del massiccio dell’Air, si trova Dabous, sede di uno dei migliori esempi di arte rupestre antica al mondo: due giraffe a grandezza naturale incise e raschiate nella pietra.
Mi sono persa a leggere queste informazioni riportate in internet dagli articoli del New Scientist e della rivista di National Geographic. Io volevo vedere Dabous. Volevo vedere il luogo dove c’era la testimonianza del Sahara ancora verde. E volevo conoscere da vicino i popoli che ne fanno il più grande deserto vivo della Terra.
Le Giraffe di Dabous sono due petroglifi a grandezza naturale, i due più grandi conosciuti al mondo raffiguranti animali, e si trovano in Niger nel cuore del Sahara ai bordi del massiccio dell’Air vicino al deserto del Tènèrè. “Tènèrè”, letteralmente vuol dire “dove non c'è nulla”, è infatti un deserto che si estende per migliaia di chilometri, ma questa traduzione letterale smentisce la sua vera essenza, infatti per oltre due millenni, il popolo Tuareg ha gestito la rotta commerciale trans-sahariana che collega le grandi città sul bordo meridionale del Sahara attraverso cinque rotte commerciali del deserto verso la costa settentrionale dell'Africa. Si tratta quindi di un deserto tutt’altro che deserto bensì vivo e popolato, dove già prima dei Tuareg, la vita si è evoluta in varie forme. Una prova di questa evoluzione la si trova in cima a un piccolo colle roccioso solitario. Qui, dove il deserto incontra le pendici delle montagne del massiccio dell’Air, si trova Dabous, sede di uno dei migliori esempi di arte rupestre antica al mondo: due giraffe a grandezza naturale incise e raschiate nella pietra.
Mi sono persa a leggere queste informazioni riportate in internet dagli articoli del New Scientist e della rivista di National Geographic. Io volevo vedere Dabous. Volevo vedere il luogo dove c’era la testimonianza del Sahara ancora verde. E volevo conoscere da vicino i popoli che ne fanno il più grande deserto vivo della Terra.
Qualche anno fa nel Sahara, mi sono resa conto di quanto le
emozioni suscitate dall’essere nel deserto più grande del mondo, fossero tanto
simili a quelle che provo regolarmente in Himalaya, nelle mie terre alte. Sono
come un fiume in piena, che affiora e sbocca dal mio cuore in un modo
incontenibile. Sono così forti che faccio fatica a descriverle, ma chi mi vede
in questi momenti, mi dice che mi si leggono negli occhi.
Parlando con amici viaggiatori più vecchietti di me, pare
essere difficile andare in Niger di questi tempi e diciamo che anche in rete
non trovo gran aiuto. Sembra un viaggio abbastanza difficile da realizzare per
molti motivi. Il paese viene ritenuto essere in instabilità. Al sud è vessato
dalle incursioni delle bande scellerate di Boko Haram, che penetrano dai suoi confini
meridionali dalla Nigeria, dove loro hanno sede, e che dicono essere una
frangia di integralisti islamici violenti. Scoprirò poi che in verità queste
scorribande poco sono legate da reali motivi religiosi e sono invece funzionali
a mantenere instabili tali confini e le vie che li attraversano e proseguono
poi verso nord, per facilitare il passaggio senza intoppi dei trafficanti di
droghe sintetiche prodotte in Nigeria, che devono raggiungere il fiorente
mercato europeo, attraversando il Sahara e il nord Africa. Queste bande sono
molto odiate dalla popolazione del Sahara in Niger e per ogni islamico
osservante sono dei degenerati che nulla c’entrano col profeta. Altro
problemino che affligge il Niger sono i contrabbandieri che trafficano armi con
la Libia, e i nuovi cercatori d’oro, pionieri, cani sciolti, spesso armati che
sarebbe meglio non incontrare e che percorrono alcune delle rotte nel paese.
Insomma il quadro lascia un po’ perplessi, ma come ogni cosa, tutto va preso
con coscienza e indagato seriamente. Ho un gruppo di amici che ho conosciuto
nella depressione Dancala, che sono stati in Niger per una decina di giorni nel
2016 appoggiandosi a un loro amico di vecchia data che è di Agadez. Loro hanno
seguito i Bororo per le loro cerimonie in settembre quando le donne trovano
marito e i giovani maschi si fanno belli per la notte della scelta. Ale, l’amico
con cui ero in Dancalia, mi spiega che ora il governo, per permettere al
turismo di ripartire, dopo gli anni di disordini che hanno sconvolto il paese
in passato, ha stabilito che dovesse essere fatto in totale sicurezza, e per
far questo aveva ufficializzato che i viaggiatori dovessero essere scortati.
Pagando questa scorta, si aveva praticamente il lascia passare per far
viaggiare gli stranieri, e per i locali, la possibilità di poter usufruire dei
guadagni che può dare il turismo nel paese che è la culla del Sahara. Ammortizzare
i costi di una scorta è quasi infattibile per un viaggio da sola. Bisogna
trovare compagni di viaggio. Il problema è che, se le persone non ne hanno
conoscenza, ti prendono per matta se gli proponi di venire con te in viaggio,
con una scorta della Garde National armata di mitraglie e kalashnikov, anche se
sono tuoi cari amici. Ho trovato più facile combinare per il trek in
Afghanistan che di lì a poco avrei fatto in autonomia. Per il Niger non c’è
stato verso di combinare con nessun compagno di viaggio. L’alternativa quindi
era aggregarmi a un gruppo di francesi, che per carità, sono esseri umani come
me, i fratellini d’oltralpe ma non mi allettava granché, oppure sentire
Michele. Michele per me è una specie di essere mitologico. Ho letto di lui
negli anni e qualcuno me ne ha parlato dicendomi essere uno dei più grandi
conoscitori del mare di sabbia, del Sahara e dei deserti. So che di solito
viaggia con i suoi amici e appunto so che di Sahara ne sa da vendere. È casa
sua. Lo chiamo. Gli chiedo se parte e se passa da Dabous. La risposta e sì, ed
è anche sorpreso che una “giovane” come me (e qui rido) sappia di Dabous, delle
Azalai, e dell’arco di Orida. Chiacchieriamo molto e alla fine passo l’esame e
mi accetta nel suo team di storici viaggiatori. Io non sto più nella pelle.
Farò un viaggio col mago della Parigi Dakar e della Camel Trophy. Quasi non ci
credo. È gennaio, andrò in Afghanistan in estate e in Niger alla fine
dell’autunno.
Il 2019 è un anno durissimo, ma non ostante tante storie avverse la Rongpuk, la Kumari de noantri, la boxi, sopravvive. Prendo il biglietto aereo per Niamey via Bamako, faccio una bella assicurazione, mando a Roma il passaporto con la lettera di invito nigerina per il visto e sono pronta per partire.
Il 2019 è un anno durissimo, ma non ostante tante storie avverse la Rongpuk, la Kumari de noantri, la boxi, sopravvive. Prendo il biglietto aereo per Niamey via Bamako, faccio una bella assicurazione, mando a Roma il passaporto con la lettera di invito nigerina per il visto e sono pronta per partire.
23 novembre da Milano a Niamey in volo
il 23 novembre prima dell’alba mi faccio scarrozzare a
Malpensa dal mio vicino di casa, quel sant’uomo di Luca, e mi imbarco sul volo
per Niamey. Sulla prima tratta trovo un missionario laico che sta volando con
un amico nella RDC. Uno dei miei sogni nel cassetto. Sì il Niyragongo. Ma sarà
per un altro viaggio.
Lo scalo a Bamako, mi mostra uno spaccato della popolazione maliana, alti, belli, fieri, dei giganti sorridenti. C’è anche la squadra nazionale di basket del Mali, degli atleti a dir poco statuari. Chiacchiero con quattro donne dagli abiti coloratissimi che sono accanto a me, parlano un po’ il francese, ridono, allegre, bellissime. Quanto deve essere bello il Mali, il popolo Dogon. Il tutto promette già bene.
Lo scalo a Bamako, mi mostra uno spaccato della popolazione maliana, alti, belli, fieri, dei giganti sorridenti. C’è anche la squadra nazionale di basket del Mali, degli atleti a dir poco statuari. Chiacchiero con quattro donne dagli abiti coloratissimi che sono accanto a me, parlano un po’ il francese, ridono, allegre, bellissime. Quanto deve essere bello il Mali, il popolo Dogon. Il tutto promette già bene.
24 novembre da Niamey a Agadez 950km in volo
Arrivo in capitale intorno alle 2.10 del mattino, nessuno mi
chiede il libretto della febbre gialla, il passaggio in dogana è relativamente
veloce, col solito form da compilare, e anche il ritiro bagagli è nella norma. Mi
accorgo di quanto la struttura dell’aeroporto di Niamey sia simile a quella di
Bamako. Poi vedo che c’è Mahaman, l’amico di Ale, ed è anche grande amico di
Michele. È la stessa persona! Il mondo di noi viaggiatori è davvero piccolo, e
ci si conosce tutti. Mi dà il biglietto aereo per Agadez e ci promettiamo di
risentirci presto. Il volo per Agadez non si sa mai a che ora parta, doveva
partire alle 7 del mattino ma forse decollerà verso mezzogiorno, per cui farò
in tempo a farmi una dormita qui a Niamey prima ripartire. Sono decisamente
rimbambita. Arrivata all’Hotel Terminus mi doccio e mi infilo a letto puntando
la sveglia alle 8 per la colazione.
In hotel non ci sono turisti, un ufficiale americano con la
moglie, due diplomatici, tre cooperanti francesi. Faccio una sana colazione con
una omelette, fette di papaya e mango e due croissantes che mi riportano subito
nella testa il “protettorato” francese, o meglio, la dominazione, la colonizzazione,
lo sfruttamento delle risorse del paese, anche quelle economiche con il CFA
imposto, che serve per mantenere la Francia nel “primo mondo”, e il Niger fermo
qui.
A Agadez dovrò cambiare un po’ di euro in CFA al cambio
fisso di 650. Questa moneta imposta alle colonie africane dalla Francia mi fa
rabbrividire, per tutto ciò che impone e per tutto ciò che sta a significare. Al
momento della sua creazione, nel 1945, l’acronimo significava “Franco delle
colonie francesi d’Africa”. Oggi invece si parla di “Franco della Comunità
finanziaria dell’UEMOA” (Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale)
e di “Franco della Cooperazione finanziaria dei Paesi CEMAC” (Comunità
economica e monetaria dell’Africa centrale). La valuta è ancorata all’euro
secondo una parità fissa decisa dalla Francia. In cambio, i Paesi che
l’adottano sono obbligati a depositare il 50% delle loro riserve valutarie
presso il Tesoro di Parigi. È sempre nella capitale francese che sono stampate
le banconote, che poi vengono inviate migliaia di chilometri più a Sud, alle
banche centrali dei singoli stati. Vi sono molti economisti che criticano
questa moneta definendola senza mezzi termini una “schiavitù valutaria”.
Ho
letto un articolo del quotidiano economico Les Echos che sottolinea il fatto
che sia stata imposta “in modo arbitrario la disciplina di bilancio in vigore
nell’Unione Europea”. In altre parole, i paesi membri del franco CFA sono
tenuti a rispettare il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil.
Esattamente come disposto per economie come quelle della Francia, della
Germania o dell’Italia. Assurdo. Qualora i Paesi africani dovessero eccedere
tale percentuale, scatterebbero delle sanzioni. L’imposizione arbitraria di un
tetto alla spesa pubblica frena i finanziamenti alle politiche governative, che
già sono minimi e tutto ciò riduce le capacità di intervento e anche il peso
politico, economico e sociale del potere pubblico. Il vincolo del 3% è stato
concepito per le nazioni molto sviluppate come le nostre ed è difficile pensare
che possa essere applicato in modo identico a nazioni macro economicamente
quasi agli antipodi come quelle africane. E allora per quale motivo il sistema
è ancora in piedi, a più di 70 anni dalla sua introduzione? Secondo i media
transalpini, perché permette di garantire un quadro sicuro in una zona nella
quale la Francia ha molti interessi economici e legami commerciali, quindi
facilita gli investimenti delle imprese francesi in Africa. La Francia ha
evidenti interessi strategici che vuole tutelare. In termini economici, secondo il Consiglio francese degli investitori in Africa (CIAN), sono presenti “mille imprese, con 80mila collaboratori”. Il tutto per un giro d’affari pari a 40 miliardi di euro all’anno. La Total ad esempio ha più del 30% della sua produzione in Africa. Mi sento male se ci penso.
Finite le riflessioni e la colazione torno in aeroporto. Qui
faccio check in, lascio il mio saccone da spedizione per l’imbarco, compilo il
form ai controlli, e entro nella sala d’attesa dei domestic. Devo fare la pipì,
come sempre bevo come un camelide assetato e poi mi serve il bagno. Con stupore
posso affermare di aver fatto pipì nel wc aeroportuale più pulito della storia.
E giuro di averla fatta in un sacco di aeroporti al mondo. L’aeroporto Diori
Hamani di Niamey ha un signor bagno, bello esteticamente e anche pulitissimo.
D’altronde è anche vero che il terminal è stato inaugurato da poco. È stato costruito
in occasione della Assemblea dell’Unione Africana che si è tenuta proprio
quest’anno qui in Niger a ridosso del mio viaggio. Ovviamente non di tasca
nigerina, ma di tasca turca, di quella stessa società, la Summa che ha fatto
costruire anche uno degli hotel più lussuosi della capitale, il Radisson Blu.
In ogni caso gran lavoro, un bell’aeroporto fatto in 11 mesi per 156mln di
euro, dati in cambio della sua gestione per almeno 30 anni. Il paese è evidente
che voglia rifarsi la faccia di chi vuole accogliere “paesi ricchi” che
vogliano fare business.
Il piccolo aereo della Air Niger decolla intorno alle 12.00,
i posti sono liberi, tipo volo low cost e mi piazzo accanto al finestrino per
vedere dall’alto il deserto che si avvicina. Sono circa due ore di volo e le
passo chiacchierando col mio vicino di banco, un ingegnere edile di Khiva che
ha studiato in Germania e lavora per il Sultano di Agadez a un grosso progetto.
È un ragazzo molto colto e simpatico. In tanto dall’oblo scorgo la strada
dissestata che in un migliaio di chilometri congiunge la capitale Niamey al
capoluogo del Tènèrè, la porta del Sahara, il confine naturale tra il deserto e
il Sahel, la mitica Agadez.
Atterro alle 14.10, il caldo è bello tosto. Sorrido tra i
baffi che per ora non ho, pensando che io, che amo i climi freddi, la neve e i
monti, sono qui nel mezzo del continente africano, pronta a entrare nel suo
deserto più grande. Finalmente incontro Michele che è venuto col suo jeeppone
Mitsubishi tirato a nuovo, incontro anche Teresa, dolce, forte, una grande
viaggiatrice e i loro amici con cui viaggeremo.
Andiamo all’Hotel de la Paix.
Un posticino semplice e pacifico dove passerò la notte prima di partire per la
spedizione.
Coi CFA appena cambiati oggi ci pagherò gli ingressi alle
tre attrazioni che visiterò tra poco a 2000CFA l’una. E il resto dei soldini li
terrò per l’acquisto di qualche bibita nelle oasi.
Alle 16.00 c’è l’appuntamento con Abajè detto Ciccio, per
fare un giretto nella cittadina insieme a Teresa. Alle 16.30 passeggio nei
vicoli della città vecchia tra le case color sabbia e legno. Alcune hanno i
muri grezzi in banco, fatti di argilla, sterco e paglia che appaiono bucherellati
come fossero le pareti di alcuni alveari,
sono tipici di queste zone, altre case
hanno le facciate intonacate a tinta unita o con dipinte forme geometriche che
le conferiscono una eleganza molto particolare. Mi colpisce l’aria che
accarezza questi vicoli, a tratti tiepida a tratti insospettatamente fresca.
Camminare qui è un salto nel passato. Il centro storico di Agadez, patrimonio
UNESCO dal 2013 con tanto di targa affissa in piazza, risale al XV e al XVI
secolo, quando il Sultanato di Aïr si stabilì qui, incoraggiando il
consolidamento delle tribù Tuareg e lo sviluppo di scambi economici e culturali
trans-sahariani. Mi dicono che la sedentarizzazione ha avuto luogo attorno agli
ex accampamenti, che hanno portato a un originale piano stradale, che è ancora
rispettato oggi. Il tradizionale sistema del sultanato che governava un tempo è
ancora esistente, garantendo l'unità sociale e la prosperità economica.È un centro storico vivo, abitato da circa da decine di migliaia di persone solo in centro, e mi pare davvero di fare un tuffo indietro nel tempo. Dal XV secolo, Agadez, "la porta del deserto", è diventata un crocevia eccezionale per il commercio con le carovane ma già era nota nel medioevo. Tutt’ora è una grandissima testimonianza di come era la città storica di 500 anni fa.
Entro in una casa che fuori ha una targa in metallo. È la
casa dell’esploratore tedesco Heinrich Barth, che è vissuto qui per un breve
periodo nel 1850, come riporta la targa, dal 9 al 30 ottobre, ed è stato il
primo
europeo a arrivare e soggiornare ad Agadez e ad assistere alla partenza
delle carovane del sale. All’interno della casa c’è un piccolo museo, con gli
orpelli e i materiali antichi usati negli accampamenti dei nomadi del deserto. È
un luogo speciale, dove si respira l’avventura d’altri tempi. Quando esco
finalmente appare la nuvola di bambini sorridenti che mi aspettavo di
incontrare, piccinini che ridono, si rincorrono, giocano, ragazzine che si
mettono in posa e che hanno già lo sguardo intrigante e ammaliante delle mature
sorelle del deserto. La vita qui è pulsante e si sente tutta. Ecco che tra una foto e una corsa arrivo a un altro luogo storico di questa città, la boulangerie, quella casa del pane dove Bernardo Bertolucci aveva girato alcune scene del suo film, il Tè nel deserto. Questi sono i luoghi dove la Winger, nei panni dell’esploratrice Kit, era prigioniera di Belqassim. Un vortice di emozioni nella mia testa, non così forti come quando avevo ripercorso le scene del Piccolo Buddha a Bhaktapur, ma altrettanto suggestive. La casa all’interno è bellissima, con delle decorazioni murarie pregevoli. Quando salgo sul tetto, cammino piano mentre sento il rimbombo dei
miei passi sulla vecchia struttura della casa, tanto fragile quanto forte e antica e da sopra ammiro i tetti di Agadez mentre si avvicina l’ora del tramonto. "Probabilmente siamo i primi turisti che sbarcano qui dopo la guerra", e Kit rispose: "Noi non siamo turisti. Siamo viaggiatori."
Ora voglio andare alla grande Moschea.
Mi incammino. Si dice che ad Agadez la grande Moschea si
veda da ogni angolo si volga lo sguardo e persino da diversi chilometri di
distanza. Il suo minareto è alto 27 metri ed è il simbolo della città e
dell'orgoglio di un popolo.
L'edificio risale al 1500, voluto dal sultano Younus
e è stato ricostruito verso la metà del 1800. Ora pare non essere visitabile
all'interno. Finalmente qualcuno apre il portone azzurro e mi introduco in
questo sogno di argilla rossa come la rossa sabbia del deserto al tramonto. Il
custode permette di entrare nel minareto e di salire scalzi, attraverso una
ripida scala di gradini di terra. Dal tetto della moschea si gode di un
panorama sui monti dell'Air e sull'immensità del deserto, nonché sulle case in
banco della città vecchia. Uno spettacolo.
È tardi per la visita del palazzo del Sultano. Non riuscirò
ne a vedere il palazzo ne a incontrare questa autorità che sopravvive ancora
oggi dopo secoli. Abechè mi dice che questa carica istituzionale ora è solo
formale, e di fatto priva di potere esecutivo e decisionale. I Tuareg comunque
lo interpellano come arbitro nelle controversie fra i vari gruppi e fazioni. Il
sultano è sempre stato di razza nera, probabilmente discendente da schiavi.
Viene eletto da tutti i capi clan dell'Air. Mi hanno raccontato che riscuote i
tributi provenienti principalmente dalle merci che attraversano la città e
dalle carovane che trasportano il sale proveniente dalle oasi sahariane di
Fachi e Bilma.
Torno verso l’Hotel de la Paix e passo davanti a una istituzione per i viaggiatori che negli anni ottanta, nel periodo di luce della Parigi Dakar, soggiornavano nella città dei Tuareg: l’Hotel dell’Air. In tanto la luna a falce contorna la cima di un minareto, mentre accanto compare Venere lucente al tramonto.
Torno verso l’Hotel de la Paix e passo davanti a una istituzione per i viaggiatori che negli anni ottanta, nel periodo di luce della Parigi Dakar, soggiornavano nella città dei Tuareg: l’Hotel dell’Air. In tanto la luna a falce contorna la cima di un minareto, mentre accanto compare Venere lucente al tramonto.
Dopo la meritata doccia, si va a cena al ristorante del
signor Gioni, un italiano che si è trasferito qui in Niger più di trent’anni
fa. Sono curiosa. Dicono che lui abbia creato un posto incantevole. Certo è fuori
dalla portata dei locali, a parte qualche militare o dignitario, è frequentato
da cooperanti e diplomatici, ma val la pena venirci per vedere la struttura e per
assaggiare la cucina davvero buona, che sa offrire ai commensali. Sarà l’ultima
cena in un ristorante prima del grande viaggio. Mi raccontano che ad Agadez,
intorno al 1925 Salah Lansari, un ricco mercante libico, per dimostrare il suo
potere, aveva fatto costruire per se una lussuosa e singolare casa a due piani.
Il muratore, Amma Sarkin Guina, per sostenere il piano superiore aveva eretto
un pilastro a base quadrata, decorandolo con un bassorilievo in stile sudanese.
Questa casa, acquistata dal signor Vittorio Gioni e così salvata dalla demolizione
progettata dai discendenti di Salah, ora ospita dal 1988 il ristorante "Le
Pilier" di Agadez, che prende proprio il nome dall’imponente pilastro che
sostiene l’edificio al suo ingresso. Il ristorante ha iniziato l'attività durante
le riprese del film " Il Tè nel Deserto" del regista Bernardo
Bertolucci, sfamando tutta la troupe, gli attori e le comparse.
Mangio i tipici spiedoni di carne alla griglia, le
brochettes, con le patate fritte e assaggio i ravioli ricotta e spinaci, che di
tipico non han nulla, ma sono buoni, fatti in casa e impensabili da trovare nel
mezzo del Sahara.
Ascoltare i racconti di Michele sulla Parigi Dakar e altri
mitici raid nel Sahara, mi convince sempre di più che ho scelto la persona
giusta da cui imparare qualcosa su questo mondo, di cui ho letto tanto ma, di cui
ho ben poca esperienza. Io ho un solo mese di Chad che ho fatto in autonomia qualche
anno fa ed è nulla in confronto a trent’anni di deserto di Michele. Poi ci sono
gli occhi. Quando viaggio osservo molto chi ho attorno, sia esso locale, sia
esso viaggiatore. Gli occhi delle persone parlano, sono come oceani in cui
tuffarsi e scoprire fondali meravigliosi. Ecco, io guardo con attenzione gli
occhi di Michele e, entrandoci dentro, leggo che qui c’è un tesoro sommerso che
sa venire a galla, leggo quella passione unica e rara che forse davvero ci
accomuna.
25 novembre da Agadez a Mekkerene via Dabous, 170km in
jeep su terreni misti (sterrato e bush)
Prima di colazione conosco Amadou, il fratello di Mahaman,
esperto autista sulla sabbia e gran conoscitore di tutte le rotte, anche quelle
più nascoste. Effettivamente i due si somigliano tantissimo e hanno entrambi un
sorriso travolgente. Due volti davvero unici ed espressivi.
Una delle bellezze di questo viaggio è che, in accordo col
team che prende parte al viaggio, sarà interamente costruito dal capospedizione
che col suo GPS e guidando la sua jeep, deciderà che direzione prendere, a
seconda della sua esperienza e di quello che ha in mente di mostrare e
soprattutto far vivere a chi lo accompagna. Una cosa simile io l’ho organizzata
per il deserto del Mangystau in Kazakhstan, studiando solo i punti GPS e i
confrontandomi con Sergey, ma ci vogliono mesi di impegno per farlo e non è una
cosa molto comune. Infatti ultimamente, se si va in spedizione con un TO locale
che ha drivers esperti, succede che ti scarrozzino più o meno sempre per le
stesse rotte. Qui invece ci si muoverà giornalmente, seguendo un programma
canovaccio, che mi poterà a entrare nei luoghi che desideravo toccare con mano,
occhi e cuore, da un sacco tempo, in un modo davvero avventuroso.
Esco dall’hotel e finalmente vedo i due pick up della Garde
National che mi accompagneranno in queste due settimane. Sono carichi con
viveri, brande, pignatte, di tutto e di più, oltre ai loro occupanti. In tutto
un contingente di 14 persone. La mia Sturmtruppen nigerina.
Alle 7.40 la carovana di Jeep parte con in testa Michele, seguito
da uno dei due pick up. L’altro starà sempre in coda e sarà così per tutta la
spedizione.
Si prende la direttiva che porta verso nord ad Arlit, strada
dal discreto traffico. A metà mattina si sosta in un piccolo agglomerato di ordinate
baracche costruite a bordo strada, evidente punto di sosta per i camionisti
locali, dato che brulica di banchetti coi bidoni di carburante tagliati a metà e
adibiti a griglierie di carni alla brace dal profumo molto invitante. I nostri
soldatini, giustamente si riforniscono di vettovaglie, e io ne approfitto per
bermi un buon succo di mango bello fresco. Il paesaggio è ovviamente brullo,
con qualche acacia spinosa e arbusti. All’ombra degli alberi, un gruppo di
giovani donne sta vendendo formaggelle di capra adagiate su bellissimi vassoietti
fatti a mano con arbusti intrecciati. Meravigliose loro e molto socievoli, offrono posto all’ombra dove scambiare sguardi e qualche parola in francese.
Prima di pranzo si devia a est nel bush, verso Dabous. Ho
letto che della conservazione di questo sito se ne sarebbe occupata la Fondazione
Bradshaw con un progetto dedicato. Uno dei principali obiettivi della
fondazione è quello di preservare l'arte rupestre antica e infatti si è
impegnata a garantire che il progetto fosse realizzato a livello di base, con
il pieno coinvolgimento di custodi Tuareg per i quali, in considerazione della
futura conservazione del sito, è stato scavato un pozzo vicino per fornire
acqua a un piccolo gruppo di loro che vivesse nell'area, in modo che un membro
della tribù sarebbe stato guida permanente, per indicare ai visitatori dove
visualizzare al meglio i petroglifi, senza camminarci sopra e prevenire danni o
furti.
Quindi si carica il custode Tuareg e in una decina di minuti
si parcheggiano le jeep e i pick up all’ombra di alcune acacie, alla base di un
piccolo accumulo roccioso di arenaria, una sorta di collinetta. I prodi soldati
lo accerchiano e uno di loro inizia a salire col custode. Appaiono alla vista
le prime incisioni zoomorfe, e in cima lo spettacolo è inenarrabile. La coppia
di giraffe più famose del Sahara si materializza davanti a me scintillante alla
luce del sole a mezzogiorno sulla pietra levigata. Dicono che siano state avvistate
per la prima volta nel 1987 da Christian Dupuy. Poi una successiva spedizione
organizzata da David Coulson del Trust for African Rock Art, ha attirato
l'attenzione di altri archeologi, tra cui Dr Jean Clottes, che rimase sorpreso
dalle dimensioni, dalla bellezza e dalla tecnica con la quale erano state
raschiate nella roccia.
Le due giraffe, un grande maschio di fronte a una femmina
più piccola, sono incise fianco a fianco sulla superficie di arenaria di questa
collinetta esposta al vento. La più grande delle due è alta circa 5 metri e
mezzo, ed è stata realizzata combinando diverse tecniche tra cui la raschiatura,
levigazione e incisione profonda dei contorni. Tuttavia, i segni di
deterioramento sono chiaramente evidenti perché, nonostante siano in un luogo
difficilmente accessibile, il sito è stato visitato e frequentato, e queste
eccezionali incisioni hanno subito le conseguenze del degrado umano sia
volontario che involontario. I petroglifi sono stati danneggiati dal calpestio,
ma forse peggio ancora, dai graffiti e alcuni frammenti sono stati rubati.
Ma a quando risalgono le giraffe di Dabous e chi le ha
fatte? Gli scienziati si sono avvicinati alla risposta nel 2000 quando il dott.
Jean Clottes ha stimato che le incisioni avessero tra i 7000 e i 10.000 anni,
dando una datazione verosimile al ritrovamento. Nella spedizione fatta nel 1999
dalla Fondazione Bradshaw per prendere il calco delle Giraffe, il team ha
esplorato un'area del deserto a nord del sito in cui c'erano notizie dell’esistenza
di altri reperti. Il team ha infatti trovato numerosi manufatti che vanno dalle
punte di freccia, teste di ascia a frammenti di ceramica. Successivamente questi
ritrovamenti sono stati assunti come testimonianze di una vita passata, prove
che chiarivano che il Sahara era stato “verde” e prove che in seguito avrebbero
fornito indizi su chi erano stati gli artisti delle incisioni delle giraffe di
Dabous e di quando erano state scolpite. Infatti un anno dopo, successivamente
a scavi effettuati da Paul Sereno, paleontologo e esploratore del National
Geographic che era in spedizione a caccia ai resti di dinosauro, si è
individuato un sito ora chiamato Gobero, risalente a 10000 anni fa che ha
portato alla luce un cimitero sulla riva di un paleolago prosciugato che si
trova nella zona e che ha suggerito che almeno due popoli dell'età della pietra
hanno vissuto tra l’attuale Air e l’attuale Tènèrè.
Gli archeologi hanno potuto
unire i puntini dei ritrovamenti per creare il quadro di tutta la storia e di
chi poteva essere l’autore dei petroglifi. Fino ad ora sono state trovate circa
200 tombe che hanno rivelato indizi interessanti su questi abitanti del
deserto. I primi abitanti i Kiffian, erano alti quasi 2 metri e cacciavano
selvaggina. Le loro ossa sono state trovate nelle vicinanze. Ma le loro tracce
sono svanite quando il Sahara ha iniziato il processo di desertificazione circa
8000 anni fa, per essere sostituiti dai Tenerians più piccolini e più magri,
quando le piogge sono tornate un millennio dopo. Ossa e manufatti implicano che
abbiano allevato bestiame e cacciato pesci e animali selvatici. Al momento non
è possibile dire con certezza quale delle due culture, i Kiffian o i Tenerians,
sia autore dei petroglifi. Ma almeno si sono identificati i possibili
responsabili.
Come sono state create le incisioni? 10.000 anni fa non
esisteva il metallo (era molto prima dell'età del bronzo) quindi come hanno
fatto? Devono aver usato un materiale duro come la selce per incidere
l'arenaria di Dabous. Nelle sabbie del deserto che circondano lo sperone di
roccia dove si trovano i petroglifi, sono stati rinvenuti numerosi scalpelli di
legno pietrificato, perfetti per logorare le scanalature e lucidare la
superficie dei petroglifi. Questo ritrovamento ha implementato l’importanza e
unicità di Dabous, per l’abilità e il modo in cui sono state create le giraffe
e la quantità di tempo necessaria per terminare un lavoro così impegnativo
fatto a quel tempo con strumenti di legno.
Finita la visita e dopo essermi totalmente persa ad ammirare
questa bellezza delle arti umane, scendo dallo sperone di roccia e mi siedo
all’ombra pronta per il pranzo. Faccio conoscenza con Jibrill, virtuosissimo
autista e con il cuoco Abu Bakar, un uomo che mi stupisce subito per la perizia
e dovizia con cui igienizza le cose, cibo incluso. Teresa mi dice che non vuole
che nessuno lo tocchi se non lui: “vieni a prendere i piatti? Lavati le mani
col sapone!!!”. Nel deserto tutto ciò per me è davvero inaspettato. Potrò
mangiare tutti i giorni verdure crude in insalata senza rischi. Pomodori,
carote saranno sempre fresche. Scopro che il bagagliaio di Michele è occupato
da un grosso frigorifero, alimentato dall’auto in moto e dal generatore, in cui
posso depositare il mio salame e il mio chilo di parmigiano reggiano 36 mesi,
scorte che mi porto regolarmente in ogni viaggio. Non si sa mai. Qui trovano
ricovero altri affettati, formaggi e le verdure che vengono acquistate dove
possibile. Alla fine ci vuol poco, davvero poco, per viaggiare potendo dare al
cibo il giusto metodo di conservazione.
A fine pranzo finalmente partecipo al
rito del tea, sì, proprio quello. Il tea nel deserto, nel mezzo del Sahara. Issaka
è andato a raccogliere le erbe Tuareg durante il pranzo, e fatte bollire, ne ha
ricavato un infuso. Il tea Tuareg, bollente, servito in piccoli bicchierini da
una teiera in metallo decorato. Si serve in tre volte, e ogni volta sarà sempre
più concentrato nel suo aroma unico e dai profumi di tempi oramai scomparsi.
Loro dicono: “Il primo bicchiere è aspro come la vita. Il secondo è dolce come
l’amore. Il terzo è soave come la morte”. Il liquido cade dall’alto nel
bicchiere e spumeggia. Dalla schiuma si apprezza la qualità di questa bevanda.
Avevo letto che servono tre condizioni per fare il rito del tea Tuareg: il
tempo, le braci e gli amici. E qui ho tutte e tre le condizioni richieste. Il
rito vuole che non si parta prima di aver bevuto l’ultimo bicchierino.
Dopo aver sbaraccato con Teresa, senza lasciare la minima
traccia del nostro passaggio, ci si avvia indietro per riprendere la direttiva
per Arlit, e per lasciarla poco dopo imboccando verso est il letto asciutto del
fiume Mekkerene. Da qui non ci saranno più strade ne piste e si seguirà il
wadi, i punti cardinali, il GPS e la memoria storica di vita nel Sahara di
Michele.
Alle 17.30 ci si ferma in una radura sopraelevata rispetto
al letto del fiume, dove ci sono molti alberi. I pick up si fermano nel fiume
dai lati opposti l’uno dall’altro come ad accoglierci in un abbraccio. Si fa il
primo campo qui e, mentre il sole cala dietro le acacie spinose, finisco di
piantare il mio igloo.
Memore delle lezioni di sopravvivenza imparate in Chad,
scarico le mie due bottiglie di acqua da un litro che avevo riempito la mattina
in hotel e messo in caldo sul fondo della jeep per tutto il giorno. Posso
quindi farmi una bella doccia calda, protetta dalle piante che mi nascondono,
sul letto del fiume in secca. C’è un silenzio strepitoso all’imbrunire. Metto i
vestiti sulla mia sedia pieghevole, i piedi dentro il mio catino per non
sporcarli di sabbia e via. Questo è sempre uno dei momenti di maggior godimento
quando faccio campo tendato. La doccia nuda sotto le stelle.
La prima cena all’aperto è suggestiva e, a parte le
innumerevoli punture da sand flies, mi godo le prime stelle cadenti.
26 novembre da Mekkerene a bivio per Assodè, 100km in
jeep sul letto del fiume in secca
Alle 6.00 mi sveglio che sta arrivando l’alba. In mezzora ho
pulito, smontato la tenda e sistemato il bagaglio davanti alla jeep. La colazione
è ottima, mi faccio il mio caffè latte d’ordinanza con il latte condensato e il
nescafè e affondo le fauci in una baguette con una bella spalmata di nutella.
Lo faccio solo in viaggio eh.
Alle 7.30 Moussa, un haussa grande e grosso, il maresciallo
in capo al nostro contingente e il tenente colonnello con altri due soldati, mi
invitano a incamminarsi con loro sul letto del fiume. Ogni giorno si faranno
sempre sui 4 o 5 km a piedi insieme dopo la colazione.
Una occasione unica per conoscere questi accompagnatori, che di primo acchito vengono spesso considerati come intrusi scomodi e che invece si sono subito rivelati piacevoli, divertenti e irriverenti compagni di viaggio.
Una occasione unica per conoscere questi accompagnatori, che di primo acchito vengono spesso considerati come intrusi scomodi e che invece si sono subito rivelati piacevoli, divertenti e irriverenti compagni di viaggio.
Poco dopo le 8.00 arrivano le jeep e il viaggio prosegue
lungo il wadi del fiume Mekkerene, che si addentra sempre di più nel labirinto
delle montagne dell’Air. Dopo un paio d’ore si arriva a un agglomerato di
capanne dove vivono un gruppo di Tuareg stanziali e dove è possibile fare
acqua.
Anche qui come in Chad, ogni giorno riuscirò ad avere due bottiglie d’acqua per lavarmi. Una grande fortuna. Qui, una piccola passeggiata, mi porta in una di queste capanne dove incontro una giovane donna con dei bambini bellissimi. Le capanne Tuareg sono a pianta circolare, formate da una intelaiatura di rami ricurvi ricoperti da stuoie di graminacee o foglie di palma. E sono circondate da recinzioni fatte di frasche essiccate.
Anche qui come in Chad, ogni giorno riuscirò ad avere due bottiglie d’acqua per lavarmi. Una grande fortuna. Qui, una piccola passeggiata, mi porta in una di queste capanne dove incontro una giovane donna con dei bambini bellissimi. Le capanne Tuareg sono a pianta circolare, formate da una intelaiatura di rami ricurvi ricoperti da stuoie di graminacee o foglie di palma. E sono circondate da recinzioni fatte di frasche essiccate.
Poco dopo mezzogiorno, ci si ferma sotto le acacie in uno
slargo che si apre nel wadi. Qui si farà pranzo.
Durante la sosta, passano due motorette con a bordo dei Tuareg. Ci deve essere un loro campo poco lontano. Dopo un po’ ritornano con delle grosse pentole caricate sulle moto.
C’è un battesimo al campo Tuareg poco distante da dove ci si è fermati, e sono venuti con un invito ufficiale a presentarsi a salutare il nuovo arrivato nella comunità.
I Tuareg ci hanno portato il cibo per festeggiare il 7° giorno, l’ingresso in comunità che si celebra con tutto il circondario, dopo una settimana dalla nascita del bambino. Saliti sulle jeep si arriva al campo. L’accoglienza è vivace e curiosa. Alla tenda della famiglia che ha avuto il lieto evento, c’è la mamma con il piccolo e la suocera che ci accoglie chiacchierando e facendosi capire benissimo, nonostante non spiccichi una parola che sia una in francese. È una donna molto fiera, con gli occhi luccicanti circondati da vivide rughe d’espressione. Al collo porta un vecchissimo gri gri che un po’ mi ricorda quello che acquistai qualche anno fa dal collo di una ragazza all’arco di Aloba nel Sahara chadiano, per un migliaio di CFA. Vorrebbe barattare la mia cintura borsellino con un suo braccialetto di perline di vetro.
Adiamo insieme sotto gli alberi, dove ci sono altre donne con bambini, e stiamo un po’ insieme a chiacchierare ognuno nella propria lingua. Poi, dopo aver lasciato dei pacchi di pasta e riso al capo clan, ci si congeda e si riparte.
Durante la sosta, passano due motorette con a bordo dei Tuareg. Ci deve essere un loro campo poco lontano. Dopo un po’ ritornano con delle grosse pentole caricate sulle moto.
C’è un battesimo al campo Tuareg poco distante da dove ci si è fermati, e sono venuti con un invito ufficiale a presentarsi a salutare il nuovo arrivato nella comunità.
I Tuareg ci hanno portato il cibo per festeggiare il 7° giorno, l’ingresso in comunità che si celebra con tutto il circondario, dopo una settimana dalla nascita del bambino. Saliti sulle jeep si arriva al campo. L’accoglienza è vivace e curiosa. Alla tenda della famiglia che ha avuto il lieto evento, c’è la mamma con il piccolo e la suocera che ci accoglie chiacchierando e facendosi capire benissimo, nonostante non spiccichi una parola che sia una in francese. È una donna molto fiera, con gli occhi luccicanti circondati da vivide rughe d’espressione. Al collo porta un vecchissimo gri gri che un po’ mi ricorda quello che acquistai qualche anno fa dal collo di una ragazza all’arco di Aloba nel Sahara chadiano, per un migliaio di CFA. Vorrebbe barattare la mia cintura borsellino con un suo braccialetto di perline di vetro.
Adiamo insieme sotto gli alberi, dove ci sono altre donne con bambini, e stiamo un po’ insieme a chiacchierare ognuno nella propria lingua. Poi, dopo aver lasciato dei pacchi di pasta e riso al capo clan, ci si congeda e si riparte.
Verso le 17.15 ci si ferma a far campo sempre nel wadi del
Mekkerene, poco prima del bivio a nord per Assodè. I ritmi li ho già presi.
Tenda, doccia, cena. Le chiacchiere al campo sono sempre un piacere e prima
della nanna i pensieri affollano la mia testa.
Il Deserto è deserto di aspetto, ma in realtà non lo è, e mostra, non nasconde, delle popolazioni che hanno tutto sommato una vita vivace, genti che si tramandano tradizioni da secoli di generazione in generazione, famiglie e comunità unite, uomini, donne e bambini che ti vengono incontro sorridenti. E sono solo all’inizio di tutto questo, che è una sorpresa unica che mi riempie il cuore.
Il Deserto è deserto di aspetto, ma in realtà non lo è, e mostra, non nasconde, delle popolazioni che hanno tutto sommato una vita vivace, genti che si tramandano tradizioni da secoli di generazione in generazione, famiglie e comunità unite, uomini, donne e bambini che ti vengono incontro sorridenti. E sono solo all’inizio di tutto questo, che è una sorpresa unica che mi riempie il cuore.
27 novembre dal wadi Mekkerene al Goundai via Oufen e
Timia, 100km in jeep su terreno misto
Mi sveglio alle 5.45. Alle 6.00 inizio a smontar tenda e
alle 6.30 sono a far colazione. Alle 7.00 si cammina per più di un’ora, tra gli
arbusti e l’erbetta pungente, su una pista in lieve salita da cui si ammirano i
monti dell’Air che ci circondano. Pian piano il terreno si fa sempre più arido
e per terra è pieno di frammenti di quarzo. Il paesaggio è lunare, una
meraviglia. Arrivano le jeep e poco dopo si fa sosta al pozzo di Oufen a far
acqua. Qui ci scappa il lavaggio dei capelli. All’aria calda si asciugheranno
in 10 minuti.
Una passeggiata con Teresa mi porta a una scuola, l’”ecole
primaire d’Oufen”, costruita nel 2016 dietro il finanziamento dall’Areva, il
che mi fa alquanto sorridere. Areva, ora diventata Orano, è una potente
multinazionale francese che si occupa di energia, più precisamente di energia
nucleare, e le sue attività sono legate principalmente all’estrazione mineraria
dell’uranio, ciclo del combustibile nucleare e gestione dei rifiuti radioattivi.
Areva possiede due miniere a Arlit, qui in Niger, dove impiega 1.600 persone e
il Niger è uno dei più grandi esportatori di uranio al mondo, per la Francia
ovviamente.
A scuola i ragazzini stanno facendo lezione in due classi
miste, una coi più piccini e l’altra con quelli più grandicelli. Le due classi
sono molto numerose, una quarantina di bambini ciascuna e sono tutti
disciplinati. Una grande lavagna con la data di oggi e la lezione di francese
pronta, i banchetti di legno allineati e non un quaderno, non una penna, ma una
semplice lavagnetta con un gessetto ciascuno e uno straccetto per cancellare.
Una tenerezza senza pari. Tanti occhi grandi e curiosi.
Nell’altra classe lezione di matematica. Tutti i bambini salutano in francese e sorridono un po’ stupiti e curiosi. Teresa, donna dal cuore grande e dalla grande sensibilità, lascia un pallone all’insegnante con la promessa di farli giocare durante l’intervallo. Teresa mi ha molto colpita, dietro ai suoi splendidi occhi di un azzurro color del ghiaccio, si cela un calore umano che ti attraversa ogni volta che ti guarda. Quanto amore questa donna.
Nell’altra classe lezione di matematica. Tutti i bambini salutano in francese e sorridono un po’ stupiti e curiosi. Teresa, donna dal cuore grande e dalla grande sensibilità, lascia un pallone all’insegnante con la promessa di farli giocare durante l’intervallo. Teresa mi ha molto colpita, dietro ai suoi splendidi occhi di un azzurro color del ghiaccio, si cela un calore umano che ti attraversa ogni volta che ti guarda. Quanto amore questa donna.
Si riparte e verso le 11.30. Le jeep si inerpicano in una
serpentina che porta alla cascata di Aguelman che scende in una conca coperta
di ghiaia e circondata da alberi verdissimi, che ne sono una cornice spettacolare.
Qui le acque hanno modellato le pareti della montagna e la roccia, rendendole
perfettamente levigate come uno scivolo creato da madre natura, dove le acque
fresche scivolano giù in un catino naturale, dove un tempo si poteva fare una
nuotata rigenerante.
Il massiccio montuoso dell’Air è grande circa 70000 km
quadrati. Per chi arriva dal deserto rappresenta il miracolo della vita, con le
sue guelte, i palmeti, le oasi piene di giardini rigogliosi. L’Air è la terra
dei Tuareg, i Kel Air, che sono sia nomadi sia sedentari, è un territorio fatto
di picchi granitici e vulcani imponenti ai cui piedi scorrono i kori, antichi
letti di fiumi in secca, le cui rive sono punteggiate di acacie e palme, che
creano dei contrasti luce e ombra favolosi, e sotto le quali trovano riparo le
tende dei nomadi.
È un territorio aspro e roccioso, un’enorme isola di rocce annerite dall’inclemenza del tempo, e qui, la presenza dell’acqua ha creato delle oasi e reso possibile la coltivazione di molti orti, chiamati i giardini dell’Air.
È un territorio aspro e roccioso, un’enorme isola di rocce annerite dall’inclemenza del tempo, e qui, la presenza dell’acqua ha creato delle oasi e reso possibile la coltivazione di molti orti, chiamati i giardini dell’Air.
Lasciata la cascata, si valica un colle e si scende nel letto
di un fiume, fino a giungere ai giardini dell’oasi di Timia, dove si farà una
lunga sosta rigenerante, tra piante di melograni, pompelmi, arance, mandarini,
mandaranci. Qui ho assaggiato anche papaya e mango, i miei due frutti
preferiti. E mi sono persa nel giardino del nostro ospite a vedere coi
coltivatori le varie piante da frutto che qui crescono rigogliose.
L’accoglienza calda e gentile che mi è stata riservata, la poterò sempre nel
cuore. Un Tuareg mi ha chiesto se per favore sarei tornata, se per favore avrei
raccontato a casa mia di questo paradiso nel mezzo dell’arido Sahara e se
avessi raccomandato presso di loro altri viaggiatori.
Qui nessuno ha chiesto denaro, ma ha invece regalato sorrisi, e solo un coltivatore si è permesso di chiedere se avessi per caso delle cesoie nuove da dargli, mostrandomi le sue cigolanti e arrugginite, in cambio di una cassa di agrumi. Non ho potuto non avere i lucciconi agli occhi.
Qui nessuno ha chiesto denaro, ma ha invece regalato sorrisi, e solo un coltivatore si è permesso di chiedere se avessi per caso delle cesoie nuove da dargli, mostrandomi le sue cigolanti e arrugginite, in cambio di una cassa di agrumi. Non ho potuto non avere i lucciconi agli occhi.
A Timia mi hanno raccontato che l’irrigazione viene fatta a
trazione animale. Asini, buoi e dromedari con un lento avanti e indietro tirano
su dai pozzi l’acqua, che viene incanalata nei campi coltivati a grano, orzo,
miglio e sorgo, ma anche pomodori e melograni, pompelmi e arance. Tutto pare
fermo nel tempo da anni.
La popolazione Tuareg di Timia, come la famiglia che mi ha
ospitato qui, si è quasi tutta sedentarizzata, i Kel Oui si dedicano in parte
alla cura degli orti, i cui frutti vengono poi portati al mercato di Agadez e
in parte alle carovane che trasportano il sale di natron da Bilma.
Negli orti, quando si accorgono che è arrivato qualche raro
viaggiatore, accorrono anche i vicini per allestire dei mercatini temporanei.
Qui c’è qualcuno che vende dei presepi in pietra, in cui al bue mancano le
corna e all’asinello le orecchie, tanto son vecchi. C’è anche un Tuareg che,
dal suo splendido borsello a frange colorate in cuoio, estrae un pacchettino di
stoffa in cui conserva delle antiche croci Tuareg. Due croci di Agadez, una di ‘In
Gall, una di Bilma, una di Timia e una di Iferouan, sono davvero belle e si vede
che sono vecchiette.
La principale forma d’arte dei Tuareg si esprime nella
decorazione, che va dalla sella dei cammelli con l’inconfondibile croce, al
cuoio dei loro borselli, al metallo. Le decorazioni sui metalli sono chiamate
Trik ed è con queste che i Tuareg esprimono la loro creatività, spesso
tramandata di padre in figlio. Sono infatti famosi per la manifattura dei
bracciali, degli anelli e soprattutto delle croci, che non sono solo ornamenti,
ma hanno un significato particolare per ogni clan.
Il popolo Tuareg è suddiviso in 21 tribù dette Kel, ed ognuna di esse ha origine in un territorio ben definito. Alcune croci, a seconda del paese in cui si trovano, possono venire chiamate in modo diverso. La croce di Iferouane viene anche chiamata Tariselt, quella di Zinder, Tenelit. L’unica croce che contiene una gemma è quella di ‘In Gall, che racchiude una pietra vetrosa di colore rosso, quelle antiche erano di ambra. La collana a cui sono sospese è in genere formata da un cordino di origine vegetale con perline in vetro e tubuli d’argento. Ogni tribù Tuareg ha quindi una croce propria e ogni croce presenta particolari caratteristiche, nel disegno, nelle incisioni, nelle dimensioni.
Questi simboli hanno differenti valenze e significati che vanno dal sociale e politico, sono simbolo di appartenenza ma anche simbolo magico con una grande valenza protettiva, oltre che ad essere un elemento decorativo. Sia alla croce di Agadez, la croce più conosciuta nel mondo, sia alle altre croci che rappresentano altrettante Confederazioni, viene attribuito il potere di disperdere il male ai quattro angoli della terra attraverso i particolari bracci che le compongono. La croce è quindi simbolo anche dei quattro punti cardinali. Questi monili hanno anche una valenza esoterica, essendo reminiscenza storica di un passato cristiano. La forma a croce infatti è di derivazione cristiana. Prima dell’invasione Araba in tutto il grande bacino sahariano, tra le popolazioni berbere originarie di questi territori, il Cristianesimo era diffusissimo, e solo in seguito è stato sostituito dall’Islam. I Tuareg, berberi, con le loro croci hanno in origine ostentato il loro indomito rifiuto della nuova religione imposta dall’invasore, conservando in essa elementi paleo cristiani e animisti.
Il popolo Tuareg è suddiviso in 21 tribù dette Kel, ed ognuna di esse ha origine in un territorio ben definito. Alcune croci, a seconda del paese in cui si trovano, possono venire chiamate in modo diverso. La croce di Iferouane viene anche chiamata Tariselt, quella di Zinder, Tenelit. L’unica croce che contiene una gemma è quella di ‘In Gall, che racchiude una pietra vetrosa di colore rosso, quelle antiche erano di ambra. La collana a cui sono sospese è in genere formata da un cordino di origine vegetale con perline in vetro e tubuli d’argento. Ogni tribù Tuareg ha quindi una croce propria e ogni croce presenta particolari caratteristiche, nel disegno, nelle incisioni, nelle dimensioni.
Questi simboli hanno differenti valenze e significati che vanno dal sociale e politico, sono simbolo di appartenenza ma anche simbolo magico con una grande valenza protettiva, oltre che ad essere un elemento decorativo. Sia alla croce di Agadez, la croce più conosciuta nel mondo, sia alle altre croci che rappresentano altrettante Confederazioni, viene attribuito il potere di disperdere il male ai quattro angoli della terra attraverso i particolari bracci che le compongono. La croce è quindi simbolo anche dei quattro punti cardinali. Questi monili hanno anche una valenza esoterica, essendo reminiscenza storica di un passato cristiano. La forma a croce infatti è di derivazione cristiana. Prima dell’invasione Araba in tutto il grande bacino sahariano, tra le popolazioni berbere originarie di questi territori, il Cristianesimo era diffusissimo, e solo in seguito è stato sostituito dall’Islam. I Tuareg, berberi, con le loro croci hanno in origine ostentato il loro indomito rifiuto della nuova religione imposta dall’invasore, conservando in essa elementi paleo cristiani e animisti.
Originariamente ognuna di queste croci era costituita da un
corpo ovoidale sormontato da un anello, con appendici secondarie diverse per
ogni tribù. Col passare degli anni si è appiattita, anche per motivi legati
alla facilità di fabbricazione, arrivando alla sua forma attuale.
Le croci sono realizzate quasi esclusivamente in argento e
quelle di maggior pregio non sono piatte, ma convesse e portano sulla faccia
posteriore il simbolo dell’artigiano che le ha coniate. Sono portate sia dagli
uomini sia dalle donne.
Io ora ho finalmente ho la mia croce di Agadez, che indosso
appesa alla mia benedizione presa allo Druk Tseden, in Bhutan. Sono davvero
felice.
Anche qui al giardino si è mangiato bene, d’altronde come
sempre fino ad ora. Alle 14.30 salutiamo la famiglia ospite, che ci dona
mandarini, arance e pompelmi rosa. Con le jeep in qualche minuto si arriva al
centro dell’oasi. Il villaggio di Timia è dominato dal vecchio forte che si
erge sul colle roccioso di fronte. Da qui si ha una bella vista sulla vallata, sui
giardini e il territorio nudo e riarso dal sole tutt’attorno. Fa molto caldo e
girare nei vicoletti sabbiosi e ghiaiosi per me è pesante. Sento il poco di
materia grigia che mi resta, ribollire nella pentola a pressione del mio
cranio. Certo però che, caldo a parte, qui è davvero stupendo. Qualche bambino
accorre e pian piano ne richiama altri che ci seguono per tutta la visita. Il
villaggio ha il forno comune dove tutti possono cuocere il pane. Due Tuareg di
bianco vestiti camminano vicini e sembrano l’uno lo specchio dell’altro. Visito
la farmacia, con gli scaffalini di legno e quattro medicinali in croce, la
drogheria, e in tanto, mentre cammino, lo sciame di bimbetti è aumentato a
dismisura. Entro in un cortile che ha una bouganville coi fiori rosa fucsia che
sono uno spettacolo. Qui alcuni artigiani stanno rifinendo delle croci Tuareg
nuove.
Ho letto che la croce Tuareg viene realizzata secondo un
antichissimo schema. Dapprima viene forgiato un modello grossolano in cera. Da
questo viene poi tratto un modello in argilla e cotto in un fuoco generalmente
tenuto attivo da un piccolo mantice in cuoio. La temperatura scioglie la cera
dentro la quale si fa la colata d’argento. Una volta raffreddata l’artigiano
apre l’involucro d’argilla e, come la perla nell’ostrica, ne trae la croce
ancora grezza. Solo dopo averla limata manualmente e decorata, la croce prende
l’aspetto di prodotto finito. Nella croce è importante il triangolo. Il vertice
rivolto verso il basso rappresenta la donna come madre universale, mentre il
vertice verso l’alto rappresenta la montagna cosmica come la piramide in
Egitto. Anticamente era il simbolo della dea Tanit che dominava le forze della
natura. Il quadrato è invece il simbolo della terra, il simbolo del creato, il
simbolo del mondo stabilizzato.
Quando esco dal cortile scorgo, al di là del muro davanti alla farmacia, una distesa di tombe. Mi dicono essere tombe di bambini, morti a seguito di una grossa pestilenza. Questo orizzonte cupo da un lato, contrapposto alla nuvola ridente e colorata che ho attorno dall’altro lato, mi destabilizza un po’. Tutto è impermanente e anche qui, come in Himalaya e come in tutti i luoghi che sembrano avere meno di noi, vedo che in realtà per certi versi hanno molto di più.
Alle 16.00, salutati da una folla di persone, bambini,
donne, uomini, giovani e meno giovani, si lascia Timia percorrendo il letto del
fiume e guardando la fortezza che sorveglia tutto e tutti. E, dopo aver
incrociato l’ultimo gruppo di bimbi che si bagnano nudi al fiume, si scompare
tra i monti dell’Air.
Due ore dopo si fa campo poco dopo aver passato il Goundai
con i suoi 1780 metri di altezza.
28 novembre da Goundai a Arakao via Zagado e Adrar
Chiriet, 160 km in jeep su terreno misto
Prima delle 7.30 sono già in cammino con Ciccio Moussa, il
tenente colonnello haussa e altri due, lui racconta che ha fatto addestramento
negli USA coi marines. Allora stiamo a posto…
Le jeep ci raggiungono dopo più di un’ora.
Dopo aver fatto scorta di acqua a un pozzo che ci permette
anche di rinfrescarci, si imbocca la valle di Zagado, l’ultimo wadi che porterà
a uscire dalle montagne dell’Air che, man mano che si prosegue a nord est,
appaiono sempre più allontanarsi dalle nostre jeep, che man mano si immergono
nella sabbia. Ci si lasciano dietro i monti Taghmert, poi a nord ovest appare
l’Adrar Chiriet e pian piano, finalmente davanti ai miei occhi, si apre il
Tènèrè.
Alle 15.00 si sosta nei pressi di una piccola duna, dalla
sommità della quale si percepiscono delle tombe preislamiche, simili a quelle
che ho visto poco prima di Bardai nel Tibesti chadiano. Si sgonfiano i
pneumatici e si punta a est. Poco dopo, dietro a una duna, vedo dei pick up e
della gente. Amadou mi dice che sono dei cercatori d’oro, ed è meglio filar via
in fretta. Se sono come quelli incontrati in Chad, diciamo che è meglio far
finta di non averli neanche visti.
Nel 2012 è stata scoperta una ricca vena aurifera che si estende dal Sudan fino alla Mauritania, passando per Niger, Mali e Burkina Faso. Con quella scoperta è iniziato un rapido processo di cambiamento nei rapporti di forza e nella sicurezza dei paesi dell’intera regione. l’International Crisis Group, autorevole centro studi sulle dinamiche dei conflitti, dice che in Mali, Burkina Faso e Niger, “fin dal 2016 gruppi armati hanno preso il controllo dell’estrazione dell’oro nelle zone dove le istituzioni statali sono deboli o assenti”. Anche in questi paesi i gruppi armati, compresi quelli jihadisti, si sono avvantaggiati della mancata regolamentazione dell’estrazione del prezioso metallo fatta con metodi tradizionali. Il rapporto dice che almeno 2 milioni di persone sono impegnate in un settore in cui il 50-60% della produzione non è regolamentata e avviene in zone remote. Secondo valutazioni credibili, sarebbe tra le 20 e le 50 tonnellate in Mali, tra le 10 e le 30 in Burkina Faso, tra le 10 e le 15 in Niger, per un valore complessivo stimato tra 1,9 e 4,5 miliardi di dollari. Gli stati saheliani rischiano di veder crescere in numero e in forza i gruppi armati che già agiscono sul loro territorio se non saranno in grado di regolamentare in modo stringente l’estrazione dell’oro e il suo commercio. È prevedibile inoltre che aumentino i traffici criminali di armi e di droga, che le risorse ricavate dal prezioso metallo possono facilmente alimentare.
Nel 2012 è stata scoperta una ricca vena aurifera che si estende dal Sudan fino alla Mauritania, passando per Niger, Mali e Burkina Faso. Con quella scoperta è iniziato un rapido processo di cambiamento nei rapporti di forza e nella sicurezza dei paesi dell’intera regione. l’International Crisis Group, autorevole centro studi sulle dinamiche dei conflitti, dice che in Mali, Burkina Faso e Niger, “fin dal 2016 gruppi armati hanno preso il controllo dell’estrazione dell’oro nelle zone dove le istituzioni statali sono deboli o assenti”. Anche in questi paesi i gruppi armati, compresi quelli jihadisti, si sono avvantaggiati della mancata regolamentazione dell’estrazione del prezioso metallo fatta con metodi tradizionali. Il rapporto dice che almeno 2 milioni di persone sono impegnate in un settore in cui il 50-60% della produzione non è regolamentata e avviene in zone remote. Secondo valutazioni credibili, sarebbe tra le 20 e le 50 tonnellate in Mali, tra le 10 e le 30 in Burkina Faso, tra le 10 e le 15 in Niger, per un valore complessivo stimato tra 1,9 e 4,5 miliardi di dollari. Gli stati saheliani rischiano di veder crescere in numero e in forza i gruppi armati che già agiscono sul loro territorio se non saranno in grado di regolamentare in modo stringente l’estrazione dell’oro e il suo commercio. È prevedibile inoltre che aumentino i traffici criminali di armi e di droga, che le risorse ricavate dal prezioso metallo possono facilmente alimentare.
Lasciati i cercatori d’oro, mi rilasso e non mi sembra vero
di nuotare con la jeep in questo mare di sabbia, che qui ha un panorama unico
al mondo, con i profili delle montagne che si vedono a sud. Si sta costeggiando
la chela nord di quel che resta del cratere estinto di Arakao, fino a giungere la
sua punta più a est, per poi fare inversione di marcia e entrare dentro l’anfiteatro
di montagne al cui interno va a infrangersi un cordone di dune. Questo cordone,
sbattendo contro il cratere, ha creato la grande duna, la duna più alta del
Tènèrè.
Arakao in lingua Tuareg è Tcin Taburak, che tradotto vuol
dire Chela di Granchio, che è proprio la forma che ha questo anfiteatro
roccioso, che abbraccia la sua duna al suo interno. La particolare
conformazione riparata che ha questo posto, ha reso Arakao un luogo di elezione
per l'uomo neolitico, infatti qui si trovano numerose testimonianze litiche e
incisioni rupestri di epoca bovidiana.
Si arriva qui alle 17.30 per fare campo proprio alla base
della duna più alta. Il contrasto visivo creato dalle pareti annerite delle
chele che abbracciano la duna, che si fa man mano sempre più rossa al tramonto,
è di una bellezza indescrivibile. Dopo aver trovato in fretta un punto dove
depositare il mio materiale da campo, mollo tutto e inizio a salire sulla duna.
Voglio vedere l’abbraccio al tramonto, il nero che stringe il rosso, le tenebre
che abbracciano il sole, la chela che culla la duna che, con la sua luce che da
rossa poi sfoca nel violetto e poi rosa, mi lascerà senza fiato per l’emozione.
Arrivata su, infatti godo di uno dei panorami più belli del viaggio. La sabbia che si perde a vista d’occhio e si fonde e confonde nei profili sfuocati delle dune alla luce fioca del tramonto. Sono al centro del grande abbraccio di Arakao e me lo godo tutto fino in fondo dall’alto, con tutta la sua bellezza. Quando la luce va a svanire, scendo scalza a piedi nudi sulla sabbia tiepida che in alcuni tratti è ancora calda e mi regala un gran bel massaggio naturale durante la discesa. Una volta giù, monto la tenda, vado a recuperare le mie solite due bottiglie di acqua lasciate sul fondo della jeep e vado a farmi la mia meritata doccia calda dietro una duna, alla luce delle stelle e alla brezza frizzante della notte che sta arrivando.
Arrivata su, infatti godo di uno dei panorami più belli del viaggio. La sabbia che si perde a vista d’occhio e si fonde e confonde nei profili sfuocati delle dune alla luce fioca del tramonto. Sono al centro del grande abbraccio di Arakao e me lo godo tutto fino in fondo dall’alto, con tutta la sua bellezza. Quando la luce va a svanire, scendo scalza a piedi nudi sulla sabbia tiepida che in alcuni tratti è ancora calda e mi regala un gran bel massaggio naturale durante la discesa. Una volta giù, monto la tenda, vado a recuperare le mie solite due bottiglie di acqua lasciate sul fondo della jeep e vado a farmi la mia meritata doccia calda dietro una duna, alla luce delle stelle e alla brezza frizzante della notte che sta arrivando.
29 novembre da Arakao a quasi Kafra, via Adrar Madet e
Falesia di Achegour, 250km in jeep nel Tènèrè
Stamane la camminata è più breve, una mezz’ora per arrivare
alla chela sud per fare rifornimento di acqua nella piccola guelta. Sulle
pareti rocciose della chela vi sono numerose iscrizioni rupestri zoomorfe
raffiguranti varie specie animali e anche figure umane. Sono risalenti ad
almeno 5000 anni fa. Passo una mezz’ora a inerpicarmi sulle rocce. Verso le
8.30 si riparte uscendo dalle chele di Arakao per affrontare il Tènèrè.
Il Tènèrè è una immensa tavola da biliardo di sabbia, piatta
da tutte le parti, in tutte le direzioni.
Un nulla di una bellezza disarmante, e orientarvisi di primo acchito pare davvero difficile. L’orizzonte è piatto a 360°. Ma in realtà è molto più semplice di quanto si crede.
C’è il sole, e soprattutto c’è la sabbia e le sue increspature che danno la direzione da tenere. Se si traccia una riga che le attraversa a 30°, si va verso est e a est ci sono le falesie e le oasi, la via che stiamo seguendo noi.
Oltre a essere un Deserto che pare non avere fine, il Tènèrè è un vero e proprio museo a cielo aperto. Amadou, ha una vista acutissima e riesce a scorgere, mentre guida, anche i reperti archeologici seminascosti dalla sabbia. Più volte ci si ferma ad ammirare delle macine neolitiche in granito, talune ancora perfettamente integre con tanto di pestello. Io ne resto affascinata.
Un nulla di una bellezza disarmante, e orientarvisi di primo acchito pare davvero difficile. L’orizzonte è piatto a 360°. Ma in realtà è molto più semplice di quanto si crede.
C’è il sole, e soprattutto c’è la sabbia e le sue increspature che danno la direzione da tenere. Se si traccia una riga che le attraversa a 30°, si va verso est e a est ci sono le falesie e le oasi, la via che stiamo seguendo noi.
Oltre a essere un Deserto che pare non avere fine, il Tènèrè è un vero e proprio museo a cielo aperto. Amadou, ha una vista acutissima e riesce a scorgere, mentre guida, anche i reperti archeologici seminascosti dalla sabbia. Più volte ci si ferma ad ammirare delle macine neolitiche in granito, talune ancora perfettamente integre con tanto di pestello. Io ne resto affascinata.
Si attraversa l’Erg Brusset superando il versante nord
dell’Adrar Madet e si continua nel piatto verso est, più o meno fino a
mezzogiorno. La sosta pranzo di oggi sarà al sole nel nulla più totale. Mi
siedo con la schiena appiccicata alla portiera della jeep per avere più ombra
possibile. Al sole è duretta, nonostante l’arietta, il caldo del deserto è
tosto. Davanti a me un orizzonte piatto infinito che si perde in miraggi a 360°.
Mezzo pompelmo rosa di Timia è una manna dal cielo con la sua freschezza. Che
spettacolo di posto è il Tènèrè.
Alle 13.15 si riparte seguendo le increspature a 30° verso est, fino a raggiungere e a incrociare la prima pista balisè, in cui i bidoni segna via si perdono in entrambi gli orizzonti, a nord est e sud ovest. Dopo un po’ se ne incontra un’altra e attraversare in jeep le tracce lasciate da altri veicoli, è un po’ come attraversare in barca il mare con le scie lasciate da altri motoscafi. Si balla.
Alle 13.15 si riparte seguendo le increspature a 30° verso est, fino a raggiungere e a incrociare la prima pista balisè, in cui i bidoni segna via si perdono in entrambi gli orizzonti, a nord est e sud ovest. Dopo un po’ se ne incontra un’altra e attraversare in jeep le tracce lasciate da altri veicoli, è un po’ come attraversare in barca il mare con le scie lasciate da altri motoscafi. Si balla.
Si supera la Falesia d’Achegour nel suo versante sud, fino a
quando alle 16.00, si giunge, finalmente e con gran emozione, a incrociare il
primo, e quello più a nord, dei 72 cordoni dell’Erg di Bilma.
La più grande autostrada di dune di tutto il Sahara. Questi cordoni di dune non sono molto alti ma scorrono, si intrecciano e si rincorrono paralleli per centinaia di chilometri dalla Falesia di Fachi, passando da quella di Bilma fino ad arrivare in Chad, sempre perfettamente in direzione nord est, sud ovest. È uno spettacolo unico. Lo si segue e si attraversa, cercando i punti di passaggio tra un cordone e il successivo in una via che pare non avere fine.
Poi verso le 17.00 si fa campo ai piedi di uno di questi cordoni di dune, prima di incrociare Kafra. Al tramonto, mentre monto la tenda, resto a guardare le gobbe cicciotte degli stercorari, mentre sgambettano sulla sabbia o rotolano giù dalle increspature della sabbia. Osservo dal vivo ciò che ho visto nei documentari.
Chissà se anche questi, come quelli namibiani, sulla schiena dietro la testa hanno una piccola parte concava dove nella notte si deposita la condensa, formando una gocciolina che, al mattino, fanno sapientemente scivolare giù dalla testa per abbeverarsi? Strani e splendidi esserini progettati per sopravvivere al deserto.
La più grande autostrada di dune di tutto il Sahara. Questi cordoni di dune non sono molto alti ma scorrono, si intrecciano e si rincorrono paralleli per centinaia di chilometri dalla Falesia di Fachi, passando da quella di Bilma fino ad arrivare in Chad, sempre perfettamente in direzione nord est, sud ovest. È uno spettacolo unico. Lo si segue e si attraversa, cercando i punti di passaggio tra un cordone e il successivo in una via che pare non avere fine.
Poi verso le 17.00 si fa campo ai piedi di uno di questi cordoni di dune, prima di incrociare Kafra. Al tramonto, mentre monto la tenda, resto a guardare le gobbe cicciotte degli stercorari, mentre sgambettano sulla sabbia o rotolano giù dalle increspature della sabbia. Osservo dal vivo ciò che ho visto nei documentari.
Chissà se anche questi, come quelli namibiani, sulla schiena dietro la testa hanno una piccola parte concava dove nella notte si deposita la condensa, formando una gocciolina che, al mattino, fanno sapientemente scivolare giù dalla testa per abbeverarsi? Strani e splendidi esserini progettati per sopravvivere al deserto.
30 novembre da Kafra alla Falesia di Kaouar via Dirkou,
135km in jeep su sabbia
Al mattino alle 7.00 ci si incammina a piedi per circa
un’ora nel mezzo di due infiniti cordoni di dune del Grande Erg di Bilma. Verso
le 8.00 si riparte in jeep sempre seguendo i cordoni di dune. Io non so se è la
luce o cosa, ma vedo la sabbia verde. Non ho le allucinazioni, non è un
miraggio, ma c’è erba nel deserto. Non posso credere ai miei occhi. Amadou me
lo conferma. A volte succede. Il Ténéré, l’Erg di Bilma sono deserti vivi,
inoltre ci sono delle falde nel sottosuolo e tutto questo fa succedere il
miracolo.
Milioni di anni fa, qui scorrevano fiumi impetuosi e la natura era lussureggiante. Qui passava il Tafassasset, oggi un fiume fossile che anticamente scorreva per centinaia di chilometri da nord a sud, tra Algeria nell’area del Tassili e dell’Hoggar e il Niger, lambendo la lunga Falesia di Kaouar, e ora noi stiamo attraversando in jeep l’antico lac du Tènèrè, il bacino che appunto versava qui tributando fino al Chad a est. Michele mi racconta e spiega tutti questi misteri geologici, dandomi davvero un contributo culturale per me dal valore inestimabile.
Milioni di anni fa, qui scorrevano fiumi impetuosi e la natura era lussureggiante. Qui passava il Tafassasset, oggi un fiume fossile che anticamente scorreva per centinaia di chilometri da nord a sud, tra Algeria nell’area del Tassili e dell’Hoggar e il Niger, lambendo la lunga Falesia di Kaouar, e ora noi stiamo attraversando in jeep l’antico lac du Tènèrè, il bacino che appunto versava qui tributando fino al Chad a est. Michele mi racconta e spiega tutti questi misteri geologici, dandomi davvero un contributo culturale per me dal valore inestimabile.
Dopo più o meno 400km di Tènèrè scorgo la falesia di Kaouar,
la più lunga di questo deserto, che da Bilma, che è la sua propaggine più a sud,
si perde verso nord per più di 150km fino a raggiungere il Djado e più in su il
Tassili algerino. A pranzo ci si ferma all’ombra delle acacie appena fuori
Dirkou. Siamo in un punto di passaggio del percorso che fanno le donne locali
quando vanno a far legna nel bush. Un gruppo di loro si ferma e scatta la
chiacchierata e lo scambio. Qualcuna di loro parla il francese.
Mi fanno delle foto coi loro smartphone e poi, presa un po’ di confidenza, gliele faccio anche io. Ci facciamo dei selfie insieme. Ridiamo, scherziamo. Qualcuna si mette in posa. Sono splendide. Poi salutano e se ve vanno verso l’oasi con le cataste di legna caricate in equilibrio sulla testa.
Mi fanno delle foto coi loro smartphone e poi, presa un po’ di confidenza, gliele faccio anche io. Ci facciamo dei selfie insieme. Ridiamo, scherziamo. Qualcuna si mette in posa. Sono splendide. Poi salutano e se ve vanno verso l’oasi con le cataste di legna caricate in equilibrio sulla testa.
Alle 13.45 si va a Dirkou per fare rifornimenti e sistemare
una jeep che ha problemi forse al carburatore. La cittadina ai piedi della
falesia è un insieme di vicoletti con casette fatte di argilla, paglia e
sterco. Mi prendo una bibita fresca in una specie di piccola bottega super
market. Poi faccio un giro con Teresa che conosce bene ogni anfratto di Dirkou.
La vita qui sembra piuttosto vivace e le vie principali sono tutte un
susseguirsi di botteghe. C’è la sarta, il verduraio che ha splendide cipolle
rosse, l’emporio dove si trova un po’ di tutto, c’è l’artigiano che confeziona
i tipici berrettini, quello che fa i bracieri, quello che vende il riso e i
cereali, c’è un negozio che mi catapulta in Asia, con sacchettini di salsa di
chilli e niente popò di meno che cavallette. Fritte, o secche? Non ho appurato
perché non è che io ci vada matta.
Qui van molto le patate dolci, quelle che noi chiamiamo patate americane, e c’è un ragazzo a bordo strada, con un bel catino pieno d’acqua e sapone che le sta lavando con dovizia. Sono una profana di certo, ma è la prima volta in vita mia che vedo lavare le patate americane come si stesse facendo il bucato. Le case dietro le vie hanno palme da datteri e il verde qui nell’oasi non manca. C’è l’artigiano che produce delle scopette che sono identiche a quelle che fanno a Bhaktapur, quelle senza manico, che per scopare per terra ti viene la sciatalgia come minimo.
Poi il signore coi bidoni del carburante adibiti a griglia. Sta cucinando dei polli. Un profumino. C’è il falegname, il meccanico, il rigattiere, e il “salon de coiffeur super stars” dove uno del team andrà a farsi barba e capelli. Una cosa curiosa sono gli essicatoi di paglia dove sono adagiate fettine sottili di carne salada, lasciata asciugare e seccare al sole rovente del Sahara. Il droghiere ha tutte le spezie divise in piccoli sacchettini e, con mia sorpresa, ha anche altro di decisamente interessate: les fleches. Me le mostra sui palmi delle mani. Teresa dice che son proprio belle. Ne ha tre stupende che non posso lasciarmi scappare. Poi la passeggiata prosegue in una sorta di mercato coperto, dove vi sono molti banchi di macelleria che, visto il luogo in cui mi trovo, immaginavo essere più malconci invece, nonostante la semplicità, sono curati e ben tenuti. C’è un’area di Dirkou dove ci sono i fabbri.
Forgiano asce, rastrelli, coltelli e quant’altro, utilizzando qualsiasi metallo di riciclo, con una abilità davvero pregevole. Alcuni hanno la propria officina delimitata da recinzioni metalliche forgiate a mano che sono delle vere e proprie opere d’arte. Che posto fantastico qui.
Qui van molto le patate dolci, quelle che noi chiamiamo patate americane, e c’è un ragazzo a bordo strada, con un bel catino pieno d’acqua e sapone che le sta lavando con dovizia. Sono una profana di certo, ma è la prima volta in vita mia che vedo lavare le patate americane come si stesse facendo il bucato. Le case dietro le vie hanno palme da datteri e il verde qui nell’oasi non manca. C’è l’artigiano che produce delle scopette che sono identiche a quelle che fanno a Bhaktapur, quelle senza manico, che per scopare per terra ti viene la sciatalgia come minimo.
Poi il signore coi bidoni del carburante adibiti a griglia. Sta cucinando dei polli. Un profumino. C’è il falegname, il meccanico, il rigattiere, e il “salon de coiffeur super stars” dove uno del team andrà a farsi barba e capelli. Una cosa curiosa sono gli essicatoi di paglia dove sono adagiate fettine sottili di carne salada, lasciata asciugare e seccare al sole rovente del Sahara. Il droghiere ha tutte le spezie divise in piccoli sacchettini e, con mia sorpresa, ha anche altro di decisamente interessate: les fleches. Me le mostra sui palmi delle mani. Teresa dice che son proprio belle. Ne ha tre stupende che non posso lasciarmi scappare. Poi la passeggiata prosegue in una sorta di mercato coperto, dove vi sono molti banchi di macelleria che, visto il luogo in cui mi trovo, immaginavo essere più malconci invece, nonostante la semplicità, sono curati e ben tenuti. C’è un’area di Dirkou dove ci sono i fabbri.
Forgiano asce, rastrelli, coltelli e quant’altro, utilizzando qualsiasi metallo di riciclo, con una abilità davvero pregevole. Alcuni hanno la propria officina delimitata da recinzioni metalliche forgiate a mano che sono delle vere e proprie opere d’arte. Che posto fantastico qui.
Una vietta mi porta a una dimora circondata da mura
altissime che portano sulla sommità un fitto cordone di filo spinato. Deve
essere o la casa del governatore o … ma c’è un cartello “Farnesina, Ministero
degli Affari Esteri e della cooperazione Internazionale” e accanto c’è un altro
cartello “MRRM Le Mècanisme de Ressource et de Rèsponse pour les Migrants, le
mècanisme est composé d’activités visant a promouvoir des alternatives viables
à la migration, informer les individus sur la migration sure et encourager les
activités qui assurent quel es migrants peuvent contribuer activement à
l’économie de leur pays d’origine”.
Resto immobile perché poi sul muro a calce di fianco, attaccato con le puntine da disegno, c’è un poster dell’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni “OIM aide les migrants qui ont décidés de retourner dans leur pays d’origine, mais n’ont pas les moyens financiers ou la documentation nécessaire pour faire de manière indépendante”
Resto immobile perché poi sul muro a calce di fianco, attaccato con le puntine da disegno, c’è un poster dell’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni “OIM aide les migrants qui ont décidés de retourner dans leur pays d’origine, mais n’ont pas les moyens financiers ou la documentation nécessaire pour faire de manière indépendante”
Se ne parla poco, ma la traversata del Mediterraneo non è
l’unico tratto di viaggio pericoloso per i profughi che scappano dai paesi
africani verso l’Europa. E neppure il più temibile, forse. C’è anche il
deserto. Che tra le dune nasconde ormai un cimitero di sofferenze e speranze. E
di tragedie. E anche qui in Niger, se ne sono consumate tante, visto che il
paese è sulla rotta dei migranti.
Nei centri OIM vi si recano liberamente o vengono condotti
quelli recuperati in mezzo al deserto dalle forze di sicurezza. Spesso queste
persone, che provengono per la maggior parte da Mali, Guinea, Senegal e Nigeria,
e che vengono trasportate su pick up di contrabbandieri e trafficanti di vite,
vengono abbandonati in mezzo al nulla e, se sono fortunati e qualcuno li
recupera, qui trovano cure mediche e assistenza psicologica, oltre ricevere
aiuto per i rimpatri volontari, altrimenti restano dispersi tra le sabbie del
Sahara. Il Sahara, il secondo cimitero dei migranti dopo il Mar Mediterraneo.
In seguito all'adozione della legge N° 2015-36 del Niger nel
maggio 2015, che ha criminalizzato la migrazione irregolare, molte persone in
transito clandestino nel paese vi sono rimaste bloccate, per cui vi è stata una
crescente ondata di richieste di assistenza per il ritorno.
Il programma AVRR (Assisted Voluntary Return and
Reintegration) dell’OIM in Niger è iniziato quindi cinque anni fa per
rispondere alla necessità per i migranti di tornare nelle loro terre d'origine
nell'Africa occidentale e, dall’inizio del progetto a fine agosto 2019, sono
state bloccate ufficialmente 40000 persone. Queste operazioni sono organizzate
nell'ambito dell'iniziativa congiunta UE-OIM per la protezione e il
reinserimento dei migranti e il “meccanismo di gestione delle risorse e delle
risposte ai migranti” (MRRM), sostenuto dall'Unione europea.
L'OIM continua inoltre a sensibilizzare i migranti e i
membri della comunità sui rischi della migrazione irregolare e sulle sue
alternative. Dal 2015 sono stati raggiunti quasi 500.000 migranti e membri
della comunità. Ma le migrazioni continuano, tra gli interessi di molti, a
scapito dei più, come descritto in questi articoli di National Geographic del
luglio e del giugno 2019: “Surrounded
by chaos, Niger is a nation on the edge” e “How
a trip through the Sahara reflects Niger’s fragile state” e per i meno
sognatori e idealisti, OIM, il mondo dei grossi progetti umanitari e la moneta
unica, in realtà non fanno altro che mantenere uno stato di costante
colonizzazione e controllo del Africa sahariana Occidentale da parte di poteri
più grandi, cosa che mi fa accapponare la pelle ancora di più.
Mi giro per continuare la mia passeggiata con Teresa e mi
pare di voltare le spalle al mondo. Questo mondo di speranze, illusioni e ingenuità
dei molti che decidono di partire.
Passo davanti al Mutuelle de Sante, e mi fa una tenerezza
infinita. Noi abbiamo così tanto, senza rendercene conto da ritenerlo scontato.
Poi l’immancabile Union Communale de Jardiniers. Mi colpisce la porticina in
ferro battuto del negozio di un verduraio che ha dipinte su le verdure che lui
vende.
Alle 16.30, jeep sistemate e rifornimenti fatti, ci si avvia
nuovamente nel deserto per fare campo ai piedi di uno dei cordoni di dune. I
tramonti nel deserto sono sempre un incanto: rosa, viola o rossi, sono uno
spettacolo imperdibile. Mi perdo a fotografare il pick up in contro luce del
tenente colonnello Ciccio Mitraglia, che ho ribattezzato così perché non si
schioda mai dalla sua postazione sul retro, sempre col mitragliatore puntato
all’orizzonte in the middle of nowhere, e sempre con un sorriso dai denti
bianchi come l’avorio che spiccano sulla sua pelle nera come l’ebano.
1 dicembre dalla Falesia di Kaouar al Grand Erg di Bilma
via Bilma, 105km nel Tènèrè sulla via dell’Azalai
Anche questa mattina la camminata di un’ora nel deserto non
me la leva nessuno. Da che parte? Di là, segui le increspature della sabbia,
non puoi sbagliare. Alle 8.20 mi recupera Amadou e dopo aver incrociato
nuovamente una pista Balisé, verso le 9.00 siamo quasi arrivati alle saline,
quando incrociamo una delle carovane del sale. È una delle famose Azalai che i
Tuareg chiamano Tarlamt, che sta partendo alla volta di Sèguèdine, l’ultima
oasi a nord del Kaouar prima dell’altopiano del Djado.
Amadou e Jibrill vanno incontro al capo carovana e proseguono a piedi con lui parlando in testa alla carovana. È una lunga colonna di dromedari e, starci in mezzo, è una emozione unica. Il deserto, il sole già alto e caldo che brilla, il frusciare mesto delle zampe dei camelidi sulla sabbia a un ritmo dolce. Non c’è altro, non si sente altro. Meraviglioso.
Amadou e Jibrill vanno incontro al capo carovana e proseguono a piedi con lui parlando in testa alla carovana. È una lunga colonna di dromedari e, starci in mezzo, è una emozione unica. Il deserto, il sole già alto e caldo che brilla, il frusciare mesto delle zampe dei camelidi sulla sabbia a un ritmo dolce. Non c’è altro, non si sente altro. Meraviglioso.
Normalmente la Tarlamt percorre dai 30 ai 40km al giorno a
una andatura di 4 o 5 km all’ora, partendo da Bilma e seguendo i cordoni di
dune del Grande Erg, passando da Fachi fino ad Agadez.
I cammellieri Tuareg con le loro navi del deserto seguono il Madugu, il capo carovana che sta in testa al comando. Gli uomini camminano pazientemente a fianco degli animali che portano carichi di sale, custoditi in stuoie di foglie intrecciate, che arrivano a pesare fino a 80 o 100kg. Ogni dromedario porta oltre al sale, i datteri, il foraggio che servirà per sfamarlo, le attrezzature necessarie alla traversata e l’acqua.
Il loro viaggio copre 600km a andare e 600 a tornare, un viaggio di più di un mese che va avanti dall’alba al tramonto, con quasi nessuna sosta se non quella che serve a nutrire i dromedari, e in cui i Tuareg possono dormire qualche ora sdraiati. Il montaggio e lo smontaggio dei carichi è troppo laborioso per fare un campo tutte le notti e i Tuareg solitamente si riposano solo sulla groppa dei loro animali, sempre in cammino.
I cammellieri Tuareg con le loro navi del deserto seguono il Madugu, il capo carovana che sta in testa al comando. Gli uomini camminano pazientemente a fianco degli animali che portano carichi di sale, custoditi in stuoie di foglie intrecciate, che arrivano a pesare fino a 80 o 100kg. Ogni dromedario porta oltre al sale, i datteri, il foraggio che servirà per sfamarlo, le attrezzature necessarie alla traversata e l’acqua.
Il loro viaggio copre 600km a andare e 600 a tornare, un viaggio di più di un mese che va avanti dall’alba al tramonto, con quasi nessuna sosta se non quella che serve a nutrire i dromedari, e in cui i Tuareg possono dormire qualche ora sdraiati. Il montaggio e lo smontaggio dei carichi è troppo laborioso per fare un campo tutte le notti e i Tuareg solitamente si riposano solo sulla groppa dei loro animali, sempre in cammino.
Il salgemma, in Africa è merce rara e preziosa.
Ma fortunatamente il deserto è ricco di depositi naturali di sale, residui della rapida evaporazione di antichi laghi, e le saline si trovano al centro del Ténéré, a Bilma, nella depressione del Kaouar, dove si estrae soprattutto il Natron, sale animale, e a Fachi dove si estrae anche il salgemma puro, e sono entrambe sfruttate da tempi immemorabili. Ogni anno, a partire da ottobre, i Tuareg dell’Air si incamminano, alla volta di Bilma trasportando miglio e tessuti di cotone, per riattraversare poi il Ténéré col prezioso carico di sale, che sarà rivenduto e barattato nei mercati del sud con dell’altro miglio e con i prodotti necessari all’economia del nomadismo.
Ma fortunatamente il deserto è ricco di depositi naturali di sale, residui della rapida evaporazione di antichi laghi, e le saline si trovano al centro del Ténéré, a Bilma, nella depressione del Kaouar, dove si estrae soprattutto il Natron, sale animale, e a Fachi dove si estrae anche il salgemma puro, e sono entrambe sfruttate da tempi immemorabili. Ogni anno, a partire da ottobre, i Tuareg dell’Air si incamminano, alla volta di Bilma trasportando miglio e tessuti di cotone, per riattraversare poi il Ténéré col prezioso carico di sale, che sarà rivenduto e barattato nei mercati del sud con dell’altro miglio e con i prodotti necessari all’economia del nomadismo.
Lasciamo la carovana di sale verso le 10.00 e ci si sposta a
una decina di minuti da lì, verso le saline di Bilma che sono a non più di tre
chilometri dall’oasi. Le saline viste da lontano non sono riconoscibili a
occhio profano, si vedono solo delle montagnole scure. Poi avvicinandosi, si
vedono finalmente le fosse a cielo aperto che fungono da bacini di decantazione
per il sale. Ne visito alcune. Ognuna è in concessione a un nucleo famigliare
diverso e si tramandano di generazione in generazione.
Il sale è estratto dalla popolazione Kanuri, un popolo dalla
pelle molto scura che è originario del Chad. Le vasche sono coperte d’acqua che,
col calore del sole, subisce una rapida evaporazione, ottenendo il formarsi di
una soluzione salina. Le acque hanno un colore che va dal giallo ocra al rosso
fino al marrone, a seconda del processo di salificazione in cui sono. Il sale di
natron estratto è grezzo e granuloso, sembra cemento, visto il suo aspetto
grigiastro, e viene polverizzato a mano tramite dei bastoni o in dei mortai.
Successivamente viene pressato dentro a stampi di legno a forma di tronchetto cono. Una volta asciugati i coni di natron, che loro chiamano “kanutu”, arrivano a pesare circa una quindicina di chili cadauno e ogni cammello in carovana ne trasporta 5 o 6 a viaggio. I Kanuri confezionano anche pani di sale più piccoli che pesano dai 4 ai 5kg, che loro chiamano “fossi”. Li fanno pressando il natron dentro a delle scodelle.
Successivamente viene pressato dentro a stampi di legno a forma di tronchetto cono. Una volta asciugati i coni di natron, che loro chiamano “kanutu”, arrivano a pesare circa una quindicina di chili cadauno e ogni cammello in carovana ne trasporta 5 o 6 a viaggio. I Kanuri confezionano anche pani di sale più piccoli che pesano dai 4 ai 5kg, che loro chiamano “fossi”. Li fanno pressando il natron dentro a delle scodelle.
Il sale in tronchi conici e in forme a scodella viene poi
venduto ai Tuareg che lo trasporteranno e poi lo rivenderanno a tre o quattro
volte tanto il prezzo pagato.
È arrivata l’ora di pranzo e ci si sposta all’ombra delle
acacie fuori da Bilma. Poi alle 13.30 ci si sposta nel villaggio per i
rifornimenti. C’è un giardino con una vasca con una fontana di acqua corrente.
Abou Bakar e Moussa si fanno un bel bagno. Io ne approfitto per lavarmi per
bene i capelli e la pashmina che si asciugano velocemente al sole.
Alle 14.30 si riparte verso il Grande Erg di Bilma, seguendo l’Itineraire de l’Azalai, una rotta Balisé, sperando di incrociare una carovana che va verso Fachi.
Si seguono le impronte lasciate dai dromedari sulla sabbia, scorgendo quali sono quelle fresche e quali quelle vecchie oramai più leggere, e si seguono anche gli immancabili datterini, gli escrementi lasciati dai camelidi lungo il percorso, che mi ricordano tanto quelli sulla via a piedi per l’Erta Ale in Dancalia, che io e i miei amici seguivamo come fossero le molliche di pane di Pollicino.
A un certo punto, a terra scorgiamo anche dei resti di foraggio, dove la notte precedente si deve essere fermata una Tarlamt, per far riposare e mangiare gli animali.
Poi finalmente, qualche cordone più in là, si vedono delle teste di dromedario spuntare dietro le dune. Eccola. La Tarlamt che speravo di vedere, sta arrivando in lontananza. Saranno circa una ottantina di capi che si muovono pian piano ondeggiando e seguendo la rotta verso ovest.
Salgo sul cordone di dune per godermi questo spettacolo che pare appartenere a un tempo indefinito perso in una dimensione parallela, la dimensione del Sahara. Non so quanto resto immobile, ammutolita a riempirmi gli occhi, il cuore e l’anima di questa pura bellezza. Amadou e lo smilzo, uno dei nostri cari soldatini, corrono verso il Madugu per dargli del riso.
Le navi del deserto incedono con grazia e eleganza dondolando sulla sabbia color cipria e disegnando un quadro impressionista sui cordoni di dune, sino a sparire all’orizzonte nel silenzio. Che emozione.
Alle 14.30 si riparte verso il Grande Erg di Bilma, seguendo l’Itineraire de l’Azalai, una rotta Balisé, sperando di incrociare una carovana che va verso Fachi.
Si seguono le impronte lasciate dai dromedari sulla sabbia, scorgendo quali sono quelle fresche e quali quelle vecchie oramai più leggere, e si seguono anche gli immancabili datterini, gli escrementi lasciati dai camelidi lungo il percorso, che mi ricordano tanto quelli sulla via a piedi per l’Erta Ale in Dancalia, che io e i miei amici seguivamo come fossero le molliche di pane di Pollicino.
A un certo punto, a terra scorgiamo anche dei resti di foraggio, dove la notte precedente si deve essere fermata una Tarlamt, per far riposare e mangiare gli animali.
Poi finalmente, qualche cordone più in là, si vedono delle teste di dromedario spuntare dietro le dune. Eccola. La Tarlamt che speravo di vedere, sta arrivando in lontananza. Saranno circa una ottantina di capi che si muovono pian piano ondeggiando e seguendo la rotta verso ovest.
Salgo sul cordone di dune per godermi questo spettacolo che pare appartenere a un tempo indefinito perso in una dimensione parallela, la dimensione del Sahara. Non so quanto resto immobile, ammutolita a riempirmi gli occhi, il cuore e l’anima di questa pura bellezza. Amadou e lo smilzo, uno dei nostri cari soldatini, corrono verso il Madugu per dargli del riso.
Le navi del deserto incedono con grazia e eleganza dondolando sulla sabbia color cipria e disegnando un quadro impressionista sui cordoni di dune, sino a sparire all’orizzonte nel silenzio. Che emozione.
Si prosegue in jeep tra i cordoni di dune, giocando ad
attraversarli e scalarli col 4x4, per poi scivolare giù, un po’ come da
ragazzini si faceva nel parco giochi sugli scivoli.
Non riesco a descrivere con le parole la bellezza di questo tratto di viaggio e l’emozione della corsa sulle dune, è un po’ come scalare un labirinto e cercare la via d’uscita, che arriva spesso inaspettata e con le pendenze più avvincenti, che vanno ovviamente affrontate con sapienza.
Sono momenti di vero e proprio godimento.
Ci fermiamo in cima a un piccolo plateau da dove, a 360
gradi si ammira tutto l’orizzonte.Non riesco a descrivere con le parole la bellezza di questo tratto di viaggio e l’emozione della corsa sulle dune, è un po’ come scalare un labirinto e cercare la via d’uscita, che arriva spesso inaspettata e con le pendenze più avvincenti, che vanno ovviamente affrontate con sapienza.
Sono momenti di vero e proprio godimento.
Vediamo la Falesia di Kaouar, il Grande Erg di Bilma coi suoi cordoni di dune che si perdono a vista d’occhio, il Tènèrè ai miei piedi. Cibo per la mia anima con un senso di libertà assoluta. Si prosegue con le corse nel labirinto dei cordoni di dune, GPS sempre sotto controllo, uno scavallamento dietro a un altro.
Uno degli ultimi
scavallamenti risulta essere un pasticcio per il nostro contingente armato.
Forse si son fatti prendere la mano, sta di fatto che il pick up di Ciccio mitraglia vola letteralmente come fosse un gommone in rafting tra i flutti e le rapide del fiume Trishuli. Ciccio resta immobile aggrappato alla sua mitraglia, e a me prende un colpo per paura che gli parta un colpo. Il resto della SturmTruppen vola per aria insieme a brande, pignatte e coperchi in maniera decisamente tragicomica, che neanche fosse stata programmata da un regista, sarebbe risultata così ben rappresentata. Resto letteralmente basita.
Mi chiedo come cavolo sia possibile uscirsene a fare una duna in questa maniera, prendendo la rincorsa, proprio come fai quando sei a piedi, che torni indietro un po’ per prendere lo slancio quando arrivi sulla punta, per saltare più in alto, giù dall’altra parte. Hanno rischiato davvero di farsi un sacco male, e poi chi glielo andava a raccontare ai vertici della Garde Nationale, che ci eravamo giocati mezza Sturmtruppen al salto su una duna.
Ci si mette tutti a correre verso il pick up per andare a vedere se sono tutti sani, alla vista del disastro. Alcuni soldati sono a terra tra le cose volate per aria. Ciccio ha una ammaccatura evidente sul polpaccio, una gran botta. Lo smilzo invece si è fatto male. Durante il volo si è tirato il calcio del kalashnikov sullo zigomo e, oltre alla gran botta, ha anche un taglio. Viene medicato e ospitato in una delle jeep per continuare il viaggio.
Forse si son fatti prendere la mano, sta di fatto che il pick up di Ciccio mitraglia vola letteralmente come fosse un gommone in rafting tra i flutti e le rapide del fiume Trishuli. Ciccio resta immobile aggrappato alla sua mitraglia, e a me prende un colpo per paura che gli parta un colpo. Il resto della SturmTruppen vola per aria insieme a brande, pignatte e coperchi in maniera decisamente tragicomica, che neanche fosse stata programmata da un regista, sarebbe risultata così ben rappresentata. Resto letteralmente basita.
Mi chiedo come cavolo sia possibile uscirsene a fare una duna in questa maniera, prendendo la rincorsa, proprio come fai quando sei a piedi, che torni indietro un po’ per prendere lo slancio quando arrivi sulla punta, per saltare più in alto, giù dall’altra parte. Hanno rischiato davvero di farsi un sacco male, e poi chi glielo andava a raccontare ai vertici della Garde Nationale, che ci eravamo giocati mezza Sturmtruppen al salto su una duna.
Ci si mette tutti a correre verso il pick up per andare a vedere se sono tutti sani, alla vista del disastro. Alcuni soldati sono a terra tra le cose volate per aria. Ciccio ha una ammaccatura evidente sul polpaccio, una gran botta. Lo smilzo invece si è fatto male. Durante il volo si è tirato il calcio del kalashnikov sullo zigomo e, oltre alla gran botta, ha anche un taglio. Viene medicato e ospitato in una delle jeep per continuare il viaggio.
Alle 17.15 si fa campo tra due cordoni di dune alla base di
uno di questi. I tramonti sono sempre più spettacolari. Stasera il pick up di
Ciccio mitraglia con la Sturmtruppen in contro luce sono uno spettacolo. Il
rosso che scema in rosa mi lascia senza fiato. Spero lo smilzino stia bene.
2 dicembre dal Grande Erg di Bilma al Erg du Tènèrè via
Fachi 200km di jeep nelle sabbie del Tènèrè
Intorno alle 7.00 si va a piedi per un’oretta in mezzo ai
cordoni di dune seguendo la loro direzione Ovest. Alle 8.00 salgo sulla jeep.
Percorrere questa via di sabbia è liberatorio. Le jeep compaiono e scompaiono
sotto i lievi avvallamenti naturali che si sono formati nello spazio tra i due
cordoni di dune, e noi si sta percorrendo questo spazio come fosse la corsia di
una autostrada immaginaria. In questo Erg le corsie autostradali sono 72,
quanti sono i cordoni di dune che lo compongono.
Appare la montagna dell’Agraim, oramai si è quasi a Fachi,
basta aggirare a sud la piccola falesia e ci siamo.
Alle 10.30 si visitano le saline. Anche qui le saline sono
in concessione alle famiglie Tebu e Kanuri che hanno le loro casette proprio
accanto alle fosse in cui lavorano. Le buche sono molto profonde e grandi. E
qui a Fachi si estrae del sale più pregiato, il salgemma bianco candido per uso
alimentare. Scendo giù nel craterone delle saline.
I colori delle vasche sono molto tenui, dall’ocra al beige e in superficie si vedono i bianchi cristalli di sale, che vengono grattati con un raschietto e messi nei secchi dalle donne, che stanno chine sotto il sole cocente coi piedi nella salsedine a lavorare a ritmi lenti e inesorabili. Il paesaggio è aspro, duro, e l’aria calda è pesante e incombente. Ho visto di peggio, ma indubbiamente queste persone lavorano e vivono in condizioni davvero difficili.
I colori delle vasche sono molto tenui, dall’ocra al beige e in superficie si vedono i bianchi cristalli di sale, che vengono grattati con un raschietto e messi nei secchi dalle donne, che stanno chine sotto il sole cocente coi piedi nella salsedine a lavorare a ritmi lenti e inesorabili. Il paesaggio è aspro, duro, e l’aria calda è pesante e incombente. Ho visto di peggio, ma indubbiamente queste persone lavorano e vivono in condizioni davvero difficili.
Ci si sposta nell’oasi. Fachi è adagiata in una depressione
alla base dell’Agram, dove dalla montagna confluisce l’acqua che la rende
un’oasi. Qui, dopo un percorso di tre o quattro giorni, giungono le carovane da
Bilma, e si riforniscono di acqua, miglio e sorgo. È l’unico avamposto abitato
in tutto il percorso dell’Itinéraire de l’Azalai tra Bilma e Agadez e da secoli
ha una posizione strategica su questa antica rotta commerciale del deserto.
A testimonianza di ciò, restano quasi intatte le mura di cinta e le rovine dell’antica fortezza nel centro della cittadina. Gli antichi abitanti di Fachi vi si rifugiavano e proteggevano dalle frequenti incursioni da parte dei predoni. Un tempo doveva essere un luogo molto più vivace di adesso. Il custode della città vecchia accompagna i pochi visitatori che passano di qui, negli stretti vicoli tra le mura, nelle vecchie case in banco, oramai quasi tutte disabitate.
Mi sembra di camminare in un presepe, dove le case vecchie hanno ancora le travi portanti dei tetti fatte coi tronchi di palma. La vecchia moschea è un patio fresco con una atmosfera di pace unica. Qui con gli occhi che scintillano di emozione, tra Michele e il custode, colgo la stretta di mano che dà un senso unico al viaggio: le diversità che uniscono e si uniscono, il contatto umano, il calore umano, l’ospitalità, lo scambio di mondi che seppur agli antipodi sono in realtà così vicini. Fachi ora è una sorta di centro del mondo.
Arrivano i bambini, accorrono ad una delle porte del villaggio. Oltre si scorgono due palme altissime e oltre ancora il deserto senza fine.
A testimonianza di ciò, restano quasi intatte le mura di cinta e le rovine dell’antica fortezza nel centro della cittadina. Gli antichi abitanti di Fachi vi si rifugiavano e proteggevano dalle frequenti incursioni da parte dei predoni. Un tempo doveva essere un luogo molto più vivace di adesso. Il custode della città vecchia accompagna i pochi visitatori che passano di qui, negli stretti vicoli tra le mura, nelle vecchie case in banco, oramai quasi tutte disabitate.
Mi sembra di camminare in un presepe, dove le case vecchie hanno ancora le travi portanti dei tetti fatte coi tronchi di palma. La vecchia moschea è un patio fresco con una atmosfera di pace unica. Qui con gli occhi che scintillano di emozione, tra Michele e il custode, colgo la stretta di mano che dà un senso unico al viaggio: le diversità che uniscono e si uniscono, il contatto umano, il calore umano, l’ospitalità, lo scambio di mondi che seppur agli antipodi sono in realtà così vicini. Fachi ora è una sorta di centro del mondo.
Arrivano i bambini, accorrono ad una delle porte del villaggio. Oltre si scorgono due palme altissime e oltre ancora il deserto senza fine.
Il custode con il suo cheche color sabbia intonato al suo
abito tradizionale a righe verticali, sembra una specie di San Pietro che ha le
chiavi di un mondo antico che spero tanto non vada perduto. Lui apre una
piccola porticina in legno antica secoli che permette l’accesso alla fortezza.
Il cortile interno è molto grande e rende bene l’idea del rifugio che doveva essere stato. Ci sono i granai e il pozzo, che permettevano una discreta autosufficienza in caso di assedio. E le torri davano sicuramente una buona vista sull’orizzonte per potersi in caso difendere dall’arrivo di intrusi.
Il cortile interno è molto grande e rende bene l’idea del rifugio che doveva essere stato. Ci sono i granai e il pozzo, che permettevano una discreta autosufficienza in caso di assedio. E le torri davano sicuramente una buona vista sull’orizzonte per potersi in caso difendere dall’arrivo di intrusi.
Usciti dalla fortezza ci si ritrova nella piazzetta di
Fachi, dove i nostri autisti e la Sturmtruppen stanno rifornendosi di acqua
insieme ai bambini e a alcune ragazze della cittadina. È ora di pranzo e si
lascia il centro dell’oasi per spostarsi all’esterno, dove le ultime acacie di
Fachi danno un po’ di ombra sulla sabbia. Sono le 13.00 ed è arrivata dell’ora
l’immancabile pranzo impeccabile di Abou Bakar, seguito dal Tea Tuareg di
Issaka, le tre tazze di tea che non vorrei più smettere di assaggiare, il rito
del deserto che porto nel cuore tutt’ora. Mi basta chiudere gli occhi per
essere ancora lì con loro.
In lontananza un gruppo di donne dagli abiti colorati
punteggiano l’orizzonte nel deserto insieme ai loro asinelli.
Si lascia Fachi e si prosegue verso Est nell’ Erg du Tènèrè
con qualche sosta a scrutare l’orizzonte. Si scavallano ancora i cordoni di
dune facendo tutti attenzione, fino a giungere a quello prescelto dove si passerà
la notte, ai piedi della duna di sabbia rosa al tramonto. Sono le 17.30 e
pianto la tenda, poi la solita doccia con il mio litro e mezzo d’acqua calda,
in intimità, io alla brezza del deserto con le stelle che spuntano in cielo.
3 dicembre dal Erg du Tènèrè a Mazelet via Arbre du
Tènèrè, 210km in jeep nella sabbia del Tènèrè
Dopo aver fatto colazione, la camminata è sempre benvenuta.
Tra i quaranta minuti e l’ora, non me la faccio mancare. Alle 8.00 recuperata
dalla jeep, si va verso l’albero del Tènèrè. Nel piatto nulla a 360° si
incontra un Tuareg con la sua mandria di dromedari. La sua cavalcatura ha una meravigliosa
sella Rahla Tuareg col tipico arcione anteriore a tre punte. Lo si lascia al
suo percorso e si prosegue verso il famoso albero.
L’arbre du Tènèrè è vissuto in mezzo al deserto per qualche
centinaio di anni. Era l’albero più isolato al mondo, l’unico esistente nel
raggio di 400 chilometri dal luogo dove aveva piantato le sue secolari radici. Queste
radici erano profonde fino a una quarantina di metri nel sottosuolo, dove raggiungevano
la falda d’acqua che gli dava il nutrimento. Questo albero era una delle tante
testimonianze del passato di verde rigoglioso che cresceva nel Tènèrè prima del
suo processo di desertificazione, una acacia a ombrello, della specie Acacia Tortilis.
Sono stati i cambiamenti climatici a ridurre l’area del
Tènèrè ad un’inospitale distesa di sabbia, con poca vegetazione e una piovosità
media annua di soli 2,5 centimetri. Anche le falde acquifere sotterranee si sono
ridotte drasticamente, e agli inizi del XX secolo, un piccolo gruppo di spinose
acacie a fiore giallo era tutto ciò che restava degli alberi del Ténéré. Nel
corso del tempo, sono morti tutti tranne uno. Lui.
L’albero, punto di riferimento per le carovane del deserto,
era intoccabile, un tabù, e si racconta che ogni anno i Tuareg si riunissero
intorno all’albero prima di affrontare la traversata del Ténéré. L’albero che
cresceva accanto a un pozzo, era una specie di faro, il primo e l’ultimo punto
di riferimento su questa rotta carovaniera tra Agadez e Bilma.
Purtroppo nel 1973 un camionista libico ubriaco lo ha
investito e spezzato e da allora è conservato in un monumento a lui dedicato
all’interno del museo nazionale di Niamey, mentre il libico dicono che sia
stato messo in carcere. Ora nello stesso punto dove l’acacia più isolata al
mondo nasceva dalla sabbia, è stato posto un palo di metallo con delle
ramificazioni in cima, una sorta di spettrale scultura post moderna realizzata
con tubi riciclati, barili vuoti, e vecchi pezzi di auto, in ricordo di ciò che
madre natura aveva regalato e mantenuto per secoli e che l’uomo stolto ha
distrutto in un attimo.
Devo dire che mi fa un po’ impressione e anche dispiacere.
La bellezza della natura di fronte alla quale qui, non si può se non riconoscere
l’orrore dell’opera umana. Inoltre vedo con sgomento che ci sono rifiuti.
Plastica, pezzi di lattine. Che tristezza infinita.
In mezzo al piatto nulla del Tènèrè però può accadere anche
di scorgere delle altre sorprese.
Un fennec accucciato guarda le jeep che avanzano. Si prova a star fermi, e lui scatta in una corsa velocissima verso il nulla. È di una bellezza indescrivibile e sono grata al karma di aver potuto scorgere il suo sguardo, anche solo per una manciata di secondi, prima che fuggisse via.
Un fennec accucciato guarda le jeep che avanzano. Si prova a star fermi, e lui scatta in una corsa velocissima verso il nulla. È di una bellezza indescrivibile e sono grata al karma di aver potuto scorgere il suo sguardo, anche solo per una manciata di secondi, prima che fuggisse via.
Proseguendo sempre verso est, su una rotta che porta a accostare
Amseguer prima, e poi Oufaguédout, si passa da un’area dove sono presenti delle
collinette di pietre scure che non sono altro che tombe preislamiche. Ce ne sono
davvero tante sulla via per Mazelet. Più a nord dovrebbe esserci infatti l’area
di scavo di Gobero se non vado errando, dove sono stati scoperti i resti delle
popolazioni Kiffians e Tenerians.
Dopo una sosta pranzo di due ore, alle 14.30 si riprende la
via per giungere al pozzo di Mezelet dove si fanno i rifornimenti di acqua,
dopo aver oltrepassato un punto con delle rocce monolitiche piantate nella
sabbia dal nulla. Il campo si farà poco distante da lì. Stasera Jibrill e Abou
Bakar fanno il pane Tuareg. Il profumo è delizioso. La tajellah, letteralmente
mi dicono significhi “cotto a terra” viene infatti cotta sotto la sabbia. Si
raccolgono ramoscelli di legna con cui si fanno dei fuochi. Le braci scaldano
la sabbia. Con la sabbia calda, si circonda e ricopre l’impasto. Sopra tale
sabbia si pongono altre braci per cuocere lentamente il pane. Se non c’è vento
in 20 minuti il pane è cotto. Dopo essere stato raschiato con un coltello e
pulito dai residui di sabbia verrà usato per preparare un piatto tipico, una sorta
di zuppone di verdure e pane dall’aroma molto saporito.
4 dicembre da Mezelet a Imilene via Gadoufaoua 120km di
jeep nella sabbia del Tènèrè
Questa mattina la camminata è in realtà solo una passeggiata
di non più di 15/20 minuti fino al pozzo di Mezelet. Poi in jeep superiamo un’area
di dune a barcana. Da ieri il paesaggio è un po’ diverso. Nella sabbia ci sono
cespugli di rovi e a tratti, quell’erba che punge tanto se ti si incastra nei
calzini. Si ha fortuna anche stamane, e ci si imbatte in una coppia di fennec
che si prova a seguire per qualche decina di metri. Sono stupendi. Poi da qui si entra in un mondo perduto.
Qui in Niger, nel Tènèrè, sopravvive fossile, un museo a cielo aperto, la valle
di Gadoufaoua.
La regione del Ténéré, come ho già scritto, non è sempre
stata desertica. Esseri umani moderni l’hanno abitata già nel Paleolitico,
circa 60.000 anni fa, andando a caccia di animali selvatici. Durante il periodo
neolitico, circa 10.000 anni fa, antichi cacciatori hanno lasciato incisioni
rupestri e dipinti che si possono ancora trovare in tutta la regione, oltre a
manufatti di vario tipo. Sulla sabbia durante la marcia in jeep si avvistano
come dei sassolini. Quando ci si ferma, si vede che in realtà spesso, questi
che a distanza appaiono sembrare sassi, sono invece cocci di vasellame
paleolitico e neolitico, e se si cerca per bene sul suolo, si trovano con
relativa facilità anche punte di frecce, pezzi di asce, raschietti e a volte
anche cocci di gioielli in pietra.
Proseguendo si arriva in un punto dove giacciono a terra dei
grossi tronchi di Araucaria, una conifera preistorica, che ci fa meglio
comprendere come, quello che oggi è uno dei luoghi più aridi della Terra, doveva
essere coperto di foreste secolari.
Durante il periodo Carbonifero questa area sud occidentale
del Tènèrè era coperta dal mare, e successivamente si è trasformata in una
foresta tropicale attraversata da fiumi. Nel Cretaceo i dinosauri vagavano
nella regione, che un tempo era anche il terreno di caccia di enormi antenati dei
coccodrilli. Gadoufaoua, nella lingua Tuareg vuol dire "Il luogo ove i
cammelli temono dirigersi", ed è una delle aree più secche e calde di
tutto il Sahara nigerino, dove le temperature salgono spesso oltre ai 50°C. La
valle non è particolarmente frequentata dai Tuareg, sia per il fatto che è
lontana dalle principali rotte carovaniere, sta infatti a est della Falesia di
Tigudit a 170km da Agadez, sia perché loro ritengono che gli scheletri fossili
dei dinosauri che qui si trovano, siano i “Beitrourou”, parola Tuareg che va
pronunciata quasi sottovoce per non farla sentire agli spiriti Jinn, e che sta
a significare "Serpenti di pietra", i mitici esseri posti a guardia
della mitica città di Anderbouka, una sorta di città fantasma stregata che
"naviga" sulle sabbie e che incute loro timore. Nel sito di
Gadoufaoua, lungo almeno 175km e largo 2, costituito da uno strato argilloso
chiamato “gres di El Rhaz”, sono stati ritrovati una grande quantità di
fossili, scheletri di dinosauri e del Super Coccodrillo, un coccodrillo di
dimensioni spaventose, tutti animali che nel Cretaceo e nel Giurassico
abitavano questa enorme valle, che altro non era che una fitta foresta pluviale
simil amazzonica costellata da paludi e lagune, dove pare siano morti e poi si
siano “conservati” i dinosauri del Tènèrè.
Si prosegue in jeep e ci si ferma in una area sabbiosa
ricoperta da sassetti dall’inconfondibile sfumatura bluastra. Sono resti di
ossa di dinosauro. Ce ne sono a non finire. Trovo anche un frammento di pelle
fossile, forse una placca dermica, riconoscibile perché levigato da un lato e
bucherellato dall’altro. Questa valle è incredibile.
Riprese le jeep, ci si ferma nel cuore della valle e, davanti ai miei occhi, appaiono i serpenti di pietra, i mitici “Beitrourou”. 12 colonne vertebrali enormi pressoché intatte di esemplari presumibilmente di iguanodonte. Ma chi mi dice che non siano invece i resti di Afrovenator Abakensis di circa 160 milioni di anni fa? O del carnivoro Suchomimus Tenerensis di 120 milioni di anni fa? O proprio dell’erbivoro Ouranosaurus Nigeriensis di 110 milioni di anni fa? Chi lo sa, io so solo che lo stupore è indescrivibile. Sto camminando su un suolo antico più di 110 milioni di anni. Un posto incredibile e unico sulla faccia della Terra.
Riprese le jeep, ci si ferma nel cuore della valle e, davanti ai miei occhi, appaiono i serpenti di pietra, i mitici “Beitrourou”. 12 colonne vertebrali enormi pressoché intatte di esemplari presumibilmente di iguanodonte. Ma chi mi dice che non siano invece i resti di Afrovenator Abakensis di circa 160 milioni di anni fa? O del carnivoro Suchomimus Tenerensis di 120 milioni di anni fa? O proprio dell’erbivoro Ouranosaurus Nigeriensis di 110 milioni di anni fa? Chi lo sa, io so solo che lo stupore è indescrivibile. Sto camminando su un suolo antico più di 110 milioni di anni. Un posto incredibile e unico sulla faccia della Terra.
Prima di partire ho letto che una spedizione tenutasi qui
tra il 1972 e il 1973 guidata dal paleontologo italiano Giancarlo Ligabue in
collaborazione con l’esploratore Cino Boccazzi e col paleontologo francese
Philippe Taquet, portò alla luce vari reperti di oltre 100 milioni d’anni
(Cretaceo) fa tra cui tre scheletri quasi completi di un dinosauro di oltre 7
metri, Ouranosaurus Nigeriensis, un iguanodonte, un erbivoro con una testa allungata,
con il muso a becco ed una bocca in parte priva di veri denti, ma ricoperta da
tessuto corneo e con molari lunghi almeno 5 cm.
Uno dei tre scheletri di questo dinosauro so che si trova all’ingresso dell’esposizione dei fossili al museo di storia naturale di Venezia, che in passato ho visitato e visto varie volte. Successivamente, sempre qui a Gadoufaoua, è stato rinvenuto anche il cranio del gigantesco Sarchosuchus Imperator, il progenitore degli attuali coccodrilli, il più grande mai rinvenuto che arrivava a 12 metri di lunghezza e il cui cranio misurava 1 metro e 60 centimetri.
Uno dei tre scheletri di questo dinosauro so che si trova all’ingresso dell’esposizione dei fossili al museo di storia naturale di Venezia, che in passato ho visitato e visto varie volte. Successivamente, sempre qui a Gadoufaoua, è stato rinvenuto anche il cranio del gigantesco Sarchosuchus Imperator, il progenitore degli attuali coccodrilli, il più grande mai rinvenuto che arrivava a 12 metri di lunghezza e il cui cranio misurava 1 metro e 60 centimetri.
Ma la storia della scoperta dei dinosauri a Sud di Agadez ho
letto che è iniziata ben prima, nel 1907, con René Chudeau che era un geologo
francese. Poi negli anni ’60 sempre i francesi hanno organizzato diverse
spedizioni per il rilevamento geologico della regione, su richiesta del
Commissariato dell’Energia Atomica, dato che non lontano da lì, ad Arlit, vi
sono alcune tra le più importanti miniere di Uranio dell’Africa. E tutto è
partito da qui. Ci sono stati poi altri esploratori, studiosi e paleontologi
che a Sud del’Air, hanno identificato numerosi siti fossiliferi con resti di
dinosauri.
Guardandomi attorno mi chiedo come si siano potuti
conservare così intatti, tronchi e scheletri. Ho letto che le soluzioni
minerali calcaree, contenute nell’acqua dei fiumi e delle lagune che hanno
coperto questi resti, hanno impregnato le ossa fino a rimpiazzarne il tessuto
chimicamente, facendo sì che il carbonato di calcio si sostituisse all’osso,
creandolo di pietra perfettamente identico, anche a livello microscopico, tanto
da poter far sapere agli studiosi, se è un osso di un esemplare giovane o
anziano. E così il cimitero dei dinosauri è rimasto intatto fino ai giorni
nostri, intrappolato nelle lastre di gres di El Rhaz dai tempi del Cretaceo
Inferiore. E io ci sto camminando sopra un po’ in punta dei piedi.
Michele mi conferma che un tempo i serpenti di pietra erano
14 ma ora ne sono rimasti una dozzina, depredati da esploratori o da spedizioni
commerciali. Questo me la dice lunga su quanto il sito meriterebbe un monitoraggio
e una protezione. È un luogo dal valore inestimabile.
A pranzo ci si sposta lontano dai 12 serpenti di pietra, a
qualche chilometro di distanza all’ombra di una acacia spinosa. Anche qui è
pieno di fossili. C’è una vertebra che è intera nel suo corpo centrale, manca
solo il processo spinoso, le alette posteriori per capirci. Dopo il consueto
tea Tuareg di Issaka, cammino per più di un’ora setacciando il terreno con gli
occhi. Trovo parecchi pezzi, credo di costole, e incastrato nel suolo, un
tronchetto di osso, forse un pezzettino di tibia o di un tarsale, dovrei fare
vedere le fotografie a un paleontologo per saperlo. Qui giace e riposa di tutto
e di più. Subito accanto scopro un acetabolo vertebrale, è solo un frammento,
manca praticamente tutto il corpo vertebrale, ma già così è grande e
meraviglioso. Moussa, il mio baldo maresciallo haussa, ha trovato molti frammenti
di denti di carnivoro, ben riconoscibili in quanto belli appuntiti. Sono
stupefatta. Che emozione. Paleontologa per un giorno. Accarezzare con gli occhi
tanta meraviglia è una cosa per cui non ringrazierò mai abbastanza Teresa e
Michele che mi ci hanno portata.
Alle 14.30 si lascia questo sito e, poco più avanti, si
attraversa quello che doveva essere un paleolago. Michele e Teresa dicono che
qui si trovano fossili di pesci. Ed è così. Incastrati nel gres vi sono pesci o
frammenti di essi. Io trovo una vertebra intatta. Non posso credere ai miei
occhi. Il Tènèrè è il deserto vivo, il paleomuseo a cielo aperto. Mai nella
vita ho posato piede in una terra così. La Valle di Gadoufaoua mi ha regalato
alcune tra le emozioni più belle che i viaggi mi hanno mai donato.
Si riparte e ci si ferma più tardi presso un accampamento
nomade, dove si incontra una giovane madre con due bambini, la piccola me la
sarei portata via. Due occhi furbi e lucenti, lucenti come quelli di mamma che
ha un sorriso di quelli che non si dimenticano. C’è un altro figlio, ma è
cieco. Un pugno nello stomaco. Miglio, datteri e sorgo. Vita dura nel deserto,
e non è una frase fatta. Bisogna essere forti per saperci stare con il sorriso
sulle labbra da donare.
Alle 17.30 si fa campo nei pressi di Imilene, accanto a dei
cespuglioni spinosi. C’è vento, il terreno è mosso. Faccio l’ultima doccia
all’aperto dietro un cespuglio lontano, il cielo è ancora azzurro, il vento fresco
sferza la mia pelle mentre l’acqua è calda. Il mio litro e mezzo d’ordinanza.
Un lusso nel deserto preso al pozzo di Mazelet. Un lusso vero, che mi fa
vergognare, perché nonostante questo me lo sono conservato ugualmente, tutti i
giorni.
L’ultima cena nel deserto, una pace assoluta, una vera
poesia per l’anima. Ogni sera in questi campi ci siamo ascoltati e raccontati.
Aneddoti di viaggio, storie di vita in Africa e in giro per il mondo. Una bella
comunione di anime diverse ma con una cosa in comune, e che a quanto pare è più
che sufficiente per stare bene insieme: viaggiare con l’anima e con gli occhi
del cuore.
5 dicembre da Imilene a Agadez via Falesia di Tiguidit,
120km in jeep su terreno misto e asfalto
Ultima sveglia prima dell’alba. Pulisco per bene la tenda, o
per lo meno faccio il possibile per mantenerla pulita come ho fatto tutte le
mattine, andando a rubare la scopa a Amadou e cercando di svuotarla dagli
inevitabili granelli di sabbia. Dopo la colazione cammino un’ora nel nulla e accanto
a un gruppo di grosse pietre faccio un incontro. Un piccolo gerbillo salta e
sgambetta qui vicino. Il tenente colonnello lo prende in mano e me lo dà.
Trema, povera bestiola, ma si fa accarezzare. Mi sento una bestia ad aver
violato la sua tranquillità per una carezza. Ma me lo sono trovato in mano.
Lo
mettiamo sulle pietre calde e il tenente colonnello mi dice che non teme gli
umani, ha solo freddo al mattino, per questo trema. Mah…per fortuna il
piccolino sparisce tra le rocce saltellando.
foto di Gigi |
Alle 8.10 ci raggiungono le jeep. Siamo ancora nel bel mezzo
del deserto quando incontriamo una famiglia Tuareg con i loro dromedari. Sono
probabilmente allevatori. Hanno un’eleganza unica e una fierezza degna di
cavalieri d’altri tempi. Il capofamiglia ha un abito blu e un candido cheche
bianco. Le donne sono sorridenti, hanno un volto sereno.
I Tuareg portano un nome dato loro dagli arabi che significa
"gli abbandonati da Dio" perché si sono opposti all’Islam quando
glielo hanno imposto. Sono un popolo che ha origini berbere, che ha cercato di
mantenere pura la sua discendenza, rimanendo fedele a tradizioni e culture
vecchie di secoli.
Anche la loro lingua è di origine berbera, il Tamachek, e la scrittura Tifinagh ha origini bel più antiche, addirittura dicono derivi dai geroglifici egizi. Le donne Tuareg hanno una posizione insolita rispetto alle donne islamiche, sono libere, hanno peso nella famiglia, possono scegliersi il marito e divorziare e partecipano alla società attivamente. La famiglia Tuareg è monogamica e mi fa un certo che, vedere che le donne non coprono il volto, al contrario degli uomini, che con il loro tagelmust mostrano solo gli occhi. Originariamente questo telo lungo anche una decina di metri era di color indaco e il nome con cui i Tuareg erano conosciuti, e cioè gli “uomini blu” deriva dal fatto che il blu del tagelmust, col caldo e il sudore, finiva per colorare loro il volto di blu. Gli uomini portano la Takouba, una lunga spada decorata con la lama a doppio taglio, e i Tuareg hanno una storia in cui sono noti essere grandi guerrieri, avendo combattuto molte battaglie per il predominio nelle oasi sahariane da Gao a Timbuctù a Agadez e contro gli imperi neri dei Songhay e dei Kanem-Bornou. Dall’altro lato, negli anni, la storia ci ha insegnato che hanno anche subito molte rappresaglie da parte degli stati in cui vivono, per convincerli a sottomettersi al governo centrale. Ma gli antropologi scrivono ”come si può pensare di sottomettere questi figli del vento, la cui vita è legata indissolubilmente ai ritmi della terra, il cui spirito vaga come un granello di sabbia portato via dal vento.” Infatti i Tuareg non costituiscono né una razza, né una nazione. La loro patria è il deserto, ma il deserto senza frontiere.
La loro omogeneità sta nella cultura, nella lingua, nel costume e nella storia. E la loro “civiltà del Sahara” si è vista essere inossidabile e inattaccabile nel corso del tempo. Nell'ambiente naturale estremamente ostile dove sono nati come nomadi e dove vivono da millenni, i Tuareg hanno saputo creare un modo di vita la cui originalità è esclusiva e geniale. È uno stile di vita in equilibrio con l’ambiente in cui si è evoluto, e questa alchimia, se alterata, è destinata a estinguersi non certo a evolversi. L'idea di libertà senza limiti della società dei Kel Tamasheq (gli uomini di lingua berbero-tuareg) o dei Kel Teggelmust (gli uomini coperti dal drappo tinto di indaco) si rivela nella frase che, i padri delle montagne dell'Aïr, dicono ai figli quando diventano adolescenti donandogli la croce Tuareg, di cui vi ho parlato quando le ho descritte nel giorno in cui le ho viste a Timia: “Figlio mio, io ti do i quattro angoli della Terra perché sappiamo dove siamo nati non sappiamo dove moriremo”. Questo dono regalato al futuro pastore-guerriero, che per noi profani è solo un ciondolo d'argento da mettere al collo, per i giovani Tuareg è un talismano prezioso che li investe della dignità di Imohar, di uomini liberi e da loro la protezione divina per sempre.
Anche la loro lingua è di origine berbera, il Tamachek, e la scrittura Tifinagh ha origini bel più antiche, addirittura dicono derivi dai geroglifici egizi. Le donne Tuareg hanno una posizione insolita rispetto alle donne islamiche, sono libere, hanno peso nella famiglia, possono scegliersi il marito e divorziare e partecipano alla società attivamente. La famiglia Tuareg è monogamica e mi fa un certo che, vedere che le donne non coprono il volto, al contrario degli uomini, che con il loro tagelmust mostrano solo gli occhi. Originariamente questo telo lungo anche una decina di metri era di color indaco e il nome con cui i Tuareg erano conosciuti, e cioè gli “uomini blu” deriva dal fatto che il blu del tagelmust, col caldo e il sudore, finiva per colorare loro il volto di blu. Gli uomini portano la Takouba, una lunga spada decorata con la lama a doppio taglio, e i Tuareg hanno una storia in cui sono noti essere grandi guerrieri, avendo combattuto molte battaglie per il predominio nelle oasi sahariane da Gao a Timbuctù a Agadez e contro gli imperi neri dei Songhay e dei Kanem-Bornou. Dall’altro lato, negli anni, la storia ci ha insegnato che hanno anche subito molte rappresaglie da parte degli stati in cui vivono, per convincerli a sottomettersi al governo centrale. Ma gli antropologi scrivono ”come si può pensare di sottomettere questi figli del vento, la cui vita è legata indissolubilmente ai ritmi della terra, il cui spirito vaga come un granello di sabbia portato via dal vento.” Infatti i Tuareg non costituiscono né una razza, né una nazione. La loro patria è il deserto, ma il deserto senza frontiere.
La loro omogeneità sta nella cultura, nella lingua, nel costume e nella storia. E la loro “civiltà del Sahara” si è vista essere inossidabile e inattaccabile nel corso del tempo. Nell'ambiente naturale estremamente ostile dove sono nati come nomadi e dove vivono da millenni, i Tuareg hanno saputo creare un modo di vita la cui originalità è esclusiva e geniale. È uno stile di vita in equilibrio con l’ambiente in cui si è evoluto, e questa alchimia, se alterata, è destinata a estinguersi non certo a evolversi. L'idea di libertà senza limiti della società dei Kel Tamasheq (gli uomini di lingua berbero-tuareg) o dei Kel Teggelmust (gli uomini coperti dal drappo tinto di indaco) si rivela nella frase che, i padri delle montagne dell'Aïr, dicono ai figli quando diventano adolescenti donandogli la croce Tuareg, di cui vi ho parlato quando le ho descritte nel giorno in cui le ho viste a Timia: “Figlio mio, io ti do i quattro angoli della Terra perché sappiamo dove siamo nati non sappiamo dove moriremo”. Questo dono regalato al futuro pastore-guerriero, che per noi profani è solo un ciondolo d'argento da mettere al collo, per i giovani Tuareg è un talismano prezioso che li investe della dignità di Imohar, di uomini liberi e da loro la protezione divina per sempre.
In rapporto all'immensità delle terre in cui vivono, i
Tuareg sono una minoranza: circa 1.000.000 di persone, di cui quasi 800.000 in
Mali e in Niger.
Alle 12.30 siamo a Agadez, Agadez la bella, Agadez la porta
del deserto. È il momento di salutare chi ci ha accompagnato in questa
avventura nel deserto, ma non riesco a farlo con tutti. Il contingente di
Moussa, è andato. Me lo sono perso e mi resta tutt’ora un profondo dispiacere
per non averli visti e fermati quando sono andati via. Non so come sia potuto
succedere. Fortunatamente abbiamo il cellulare di uno di loro e si riesce a
scrivergli un messaggio a cui prontamente si riceve risposta. Meglio di niente,
anche se per me è un meglio di niente amaro, ma è andata così. I nostri Tuareg invece
si riesce a salutarli tutti. Sono fortunata ad aver avuto accanto persone così
nobili e gentili. Quando sono arrivata in Niger ero titubante, la mia
esperienza con le genti del Sahara non era stata facile nell’ultimo viaggio in Chad.
Gente difficile, ostica, dura a lasciarsi andare. Qui invece ho trovato un
altro mondo. E sì che i confini sono solo sulla carta, spazzati via dal vento
nella sabbia. Qui ho trovato delle genti accoglienti, ridenti, solari. Belle.
Dopo una doccia, vado a pranzo a Le Pillier. Le brochettes
non me le leva nessuno. Nel pomeriggio verso le 16.00 si gira per Agadez. C’è
un hotel nuovo, in stile locale ma dismesso, fatto costruire da uno svizzero ma
poi mai potuto avviare, per via del declino del turismo, in seguito
all’instabilità in cui ha versato il paese per anni. La dimora è bellissima,
tutta color sabbia, con le mura di cinta decorate da corna di zebù. Ci fanno
entrare e salire sulla torre centrale, da cui si ha una bella vista sulla
città, ma anche su uno dei campi profughi dell’area cittadina. Avevo letto un
articolo di Internazionale che parlava di questi campi profughi.
Non è un mistero che Agadez sia stata ribattezzata in passato come “la città dei migranti”, uno dei punti di inizio della “rotta per il Mediterraneo” da cui, prima della legge del 2015 contro il traffico dei migranti, sono passate 300000 persone.
Da qui i passeur traportavano anche 25 persone per pick up, nelle rotte verso la Libia. Ora, dal tetto di questa dimora, guardo queste persone nelle loro povere baracche e, una volta scesa giù in strada, vedendo i bambini che sorridono, mi prende una gran malinconia, un senso di impotenza e inadeguatezza che mi si conficca in testa come un chiodo.
Non è un mistero che Agadez sia stata ribattezzata in passato come “la città dei migranti”, uno dei punti di inizio della “rotta per il Mediterraneo” da cui, prima della legge del 2015 contro il traffico dei migranti, sono passate 300000 persone.
Da qui i passeur traportavano anche 25 persone per pick up, nelle rotte verso la Libia. Ora, dal tetto di questa dimora, guardo queste persone nelle loro povere baracche e, una volta scesa giù in strada, vedendo i bambini che sorridono, mi prende una gran malinconia, un senso di impotenza e inadeguatezza che mi si conficca in testa come un chiodo.
Il mercato turistico di Agadez è un po’ uno specchio
dell’immobilità in cui purtroppo versa ancora il turismo in Niger. Le botteghe
sono poche e chiuse. Il negozio situato all’ingresso del mercato, non ha
neppure la corrente elettrica per illuminare le teche impolverate che
raccolgono gioielli in argento, pregio della manifattura locale. Un peccato.
Per fortuna, ora si percepisce che qualcosa pian piano si sta muovendo, per far tornare la gente a visitare questa perla nel deserto, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Mentre cammino a Agadez, i miei pensieri scorrono veloci, so che avrò voglia di raccontare il bello che vi ho trovato e gli enormi sforzi che ho colto, da parte della popolazione, per rendere il più possibile accogliente la loro terra aspra e meravigliosa.
Per fortuna, ora si percepisce che qualcosa pian piano si sta muovendo, per far tornare la gente a visitare questa perla nel deserto, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Mentre cammino a Agadez, i miei pensieri scorrono veloci, so che avrò voglia di raccontare il bello che vi ho trovato e gli enormi sforzi che ho colto, da parte della popolazione, per rendere il più possibile accogliente la loro terra aspra e meravigliosa.
Al mercato del bestiame faccio un tuffo nel passato che mi
porta a ricordare le passeggiate fatte al mercato di Kashgar nella terra Uygura
dello Xinjiang occupato da Pechino.
Anche qui a Agadez, file di pecore, montoni, capre e splendidi dromedari con gli occhi azzurri, sono in bella mostra pronti ad essere venduti e acquistati, proprio come là, ai piedi dei monti del Tien Shan, qui ai piedi del grande Sahara.
Alle 19.30 una splendida cena nel patio del ristorante di Vittorio mi regala una indimenticabile serata. L’ultima serata ad Agadez.
Anche qui a Agadez, file di pecore, montoni, capre e splendidi dromedari con gli occhi azzurri, sono in bella mostra pronti ad essere venduti e acquistati, proprio come là, ai piedi dei monti del Tien Shan, qui ai piedi del grande Sahara.
Alle 19.30 una splendida cena nel patio del ristorante di Vittorio mi regala una indimenticabile serata. L’ultima serata ad Agadez.
6 dicembre da Agadez a Niamey via Zinder in volo
La colazione all’hotel de la Paix è fatta con tutta calma. I
bagagli anche. Per le 12.00 siamo al piccolo aeroporto di Agadez. Il saluto a
Michele e Teresa sarà un arrivederci. Non può finire qui perché, vicini o
lontani, un sottile filo di seta, che ha la forma dell’amore per le
esplorazioni, credo che ci unirà per molto tempo ancora.
Dopo i controlli, resto seduta ad attendere il volino. Qui è
come a casa mia in Nepal. Ci sono degli orari ma non sai mai in realtà quando e
se parte qualcosa. A Kathmandu mi è successo di aspettare per ore per poi
ritornare al Planet perché su a Lukla o c’era nebbia o c’era vento, o sa il
cavolo cosa c’era. Qui non è tanto diverso. L’attesa è lunghina, ma finalmente
il volo arriva. Non sarà diretto ma, come ci si aspettava, passerà da Zinder al
sud, dove sosterà per una mezz’ora. Alla fine di tutto sto cinema, si riesce a
essere a Niamey per le 19.00 e a prendere camera al Grand Hotel, che sta sulla
riva del Fiume Niger con una vista spettacolare. Come a N’Djamena in Chad,
anche qui la sicurezza non è lasciata al caso. Metaldetector, scanner, specchi
per guardare sotto le auto, bidoni e barriere antisfondamento e militari a ogni
struttura alberghiera. Tutto ciò mi pare un po’ in contrasto con le persone che
ci sono fuori, prodighe di sorrisi e così gentili. Ma è giustificato dal
recente passato e l’esperienza insegna a non abbassare la guardia. Prevenire e
proteggere è meglio che curare. Questo l’ho visto bene anche in altri paesi,
come il Pakistan ad esempio.
Un taxi mi porta al Pillier di Niamey, anche qui frequentato
da diplomatici, cooperanti.
Una cosa che mi ha lasciata alquanto perplessa in questi
ambienti, è stata incontrare diplomatici del mio paese che sono lì per monitorare
la situazione, o almeno così penso, e che vengono a chiedere a un viaggiatore
come sia la situazione nel paese, quando forse dovrebbero essere loro a dirlo.
Difficile però farlo da una camera del Grand Hotel du Niger, non è possibile avere
un quadro del paese non vivendolo, forse…meglio chiederlo a chi viaggia, no?
7 dicembre Niamey
Niamey è adagiata e cresciuta sulle sponde del grande fiume.
Il fiume Niger da acqua e vita a un paese che ha una terra riarsa dal sole. Solo
al Sud e nel Sahel, le piogge stagionali danno sollievo alle popolazioni Bororo
e Peul, che vivono spostandosi con le loro mandrie in transumanza cercando il verde,
e l’acqua e agli Haussa e Bella, che possono finalmente avere terra fertile per
la coltivazione.
Dopo le 9.00 del mattino ci si incammina fuori dall’hotel
verso la sponda del fiume per prendere una barca per la navigazione sul fiume.
Oramai le Pinasse, le tipiche imbarcazioni usate per secoli sul grande fiume,
sono a motore, e la navigazione sul fiume Niger che è stata un viaggio mitico
per molti, ora è per lo più impraticabile se non per brevi tratte, e una di
queste la farò io questa mattina. Per fortuna qui è tutto ancora abbastanza
autentico. Due ore e mezza di navigazione sono rilassanti e mi permettono uno
sguardo da un punto di vista diverso sulla capitale.
Si arriva fino a un isolotto dove si trova un branco di ippopotami sonnecchianti. Vedere dei pachidermi mi riporta in mente che sono in Africa, e non nego che al termine del viaggio ripartirei o per un safari a sud o per andare a nord verso Iferouan e le montagne blu, magari fino al Djado per vedere il mitico arco di Oridà. Quando si dice che a un viaggiatore non basta mai. Tornata in hotel, dopo una bella baguette jambon - beurre e un abbozzo di saccone sistemato, alle 15.30 si va a piedi verso il Museo Nazionale. Si passa sotto il ponte Kennedy ben ripulito e giunti al Boulevard de la Republique, attraversata la strada, si entra dal cancello principale dove c’è un banchetto di souvenir paccottiglia. All’ingresso chiedono il pagamento di tot CFA per poter fare le fotografie, oltre al pagamento del biglietto. Il museo è organizzato in tanti piccoli padiglioni, tante casette ognuna dedicata a una sezione museale.
Purtroppo, a parte la prima casetta che si incontra sulla sinistra che ospita manufatti principalmente della cultura haussa, le altre sono chiuse. All’esterno c’è gente che bivacca svogliatamente. Non c’è verso di farsi aprire gli altri padiglioni, prima dicono di aspettare ma poi è evidente che nessuno verrà ad aprire un bel niente. I guardiani o stanno mangiando o giocando a dadi e non hanno tempo. Riesco a intrufolarmi solo in un altro padiglione che ospita dei manichini con indosso abiti tradizionali dei vari gruppi etnici, ma appena arriva la guardiana mi caccia. Non capisco sinceramente come sia regolato l’ingresso ai padiglioni. Fanno pagare, ma poi nessuno è disposto ad aprirti le porte per vedere le sezioni. This is Africa. Mi accontento di vedere il malconcio monumento coperto in cui è conservato ciò che resta dell’Albero del Tènèrè. Vedere un museo lasciato così nell’incuria, proprio nel periodo in cui la stampa sostiene che la città si sia fatta bella per ospitare il famoso Summit dei paesi del Sahel, per attrarre investitori internazionali, mi dà molto fastidio. A nessuno dei "pupari" che governano interessa la cultura, la storia, il patrimonio archeologico e paleontologico del paese.
Basterebbe davvero poco per rendere attraente un museo, per tenerlo bene. Invece nulla. Tra l’altro qui c’è anche uno zoo, altra cosa che mi innervosisce, più ancora quando vedo l’incuria e la desolazione in cui versa, con i pochi animali magrissimi, prigionieri in piccole e anguste gabbie per lo più esposte al sole cocente. Non ce la posso fare. In città c’è gente che sicuramente soffre la fame, e qui fanno soffrire anche gli animali.
Si arriva fino a un isolotto dove si trova un branco di ippopotami sonnecchianti. Vedere dei pachidermi mi riporta in mente che sono in Africa, e non nego che al termine del viaggio ripartirei o per un safari a sud o per andare a nord verso Iferouan e le montagne blu, magari fino al Djado per vedere il mitico arco di Oridà. Quando si dice che a un viaggiatore non basta mai. Tornata in hotel, dopo una bella baguette jambon - beurre e un abbozzo di saccone sistemato, alle 15.30 si va a piedi verso il Museo Nazionale. Si passa sotto il ponte Kennedy ben ripulito e giunti al Boulevard de la Republique, attraversata la strada, si entra dal cancello principale dove c’è un banchetto di souvenir paccottiglia. All’ingresso chiedono il pagamento di tot CFA per poter fare le fotografie, oltre al pagamento del biglietto. Il museo è organizzato in tanti piccoli padiglioni, tante casette ognuna dedicata a una sezione museale.
Purtroppo, a parte la prima casetta che si incontra sulla sinistra che ospita manufatti principalmente della cultura haussa, le altre sono chiuse. All’esterno c’è gente che bivacca svogliatamente. Non c’è verso di farsi aprire gli altri padiglioni, prima dicono di aspettare ma poi è evidente che nessuno verrà ad aprire un bel niente. I guardiani o stanno mangiando o giocando a dadi e non hanno tempo. Riesco a intrufolarmi solo in un altro padiglione che ospita dei manichini con indosso abiti tradizionali dei vari gruppi etnici, ma appena arriva la guardiana mi caccia. Non capisco sinceramente come sia regolato l’ingresso ai padiglioni. Fanno pagare, ma poi nessuno è disposto ad aprirti le porte per vedere le sezioni. This is Africa. Mi accontento di vedere il malconcio monumento coperto in cui è conservato ciò che resta dell’Albero del Tènèrè. Vedere un museo lasciato così nell’incuria, proprio nel periodo in cui la stampa sostiene che la città si sia fatta bella per ospitare il famoso Summit dei paesi del Sahel, per attrarre investitori internazionali, mi dà molto fastidio. A nessuno dei "pupari" che governano interessa la cultura, la storia, il patrimonio archeologico e paleontologico del paese.
Basterebbe davvero poco per rendere attraente un museo, per tenerlo bene. Invece nulla. Tra l’altro qui c’è anche uno zoo, altra cosa che mi innervosisce, più ancora quando vedo l’incuria e la desolazione in cui versa, con i pochi animali magrissimi, prigionieri in piccole e anguste gabbie per lo più esposte al sole cocente. Non ce la posso fare. In città c’è gente che sicuramente soffre la fame, e qui fanno soffrire anche gli animali.
Mi sposto verso il patio recintato e coperto
dove si trovano tre enormi scheletri dei dinosauri trovati dal paleontologo
Paul Sereno nel 1997. È interessante vedere interi, i resti che ho visto sparsi
a Gadoufaoua. L’ Ouranosaurus Nigeriensis è enorme, un vero e proprio
sauropode, un sinuoso animale dalle dimensioni colossali che realizzo solo ora
come avrebbe dovuto essere, vedendolo ricomposto intero e in piedi. I denti e
gli artigli del carnivoro Suchomimus Tenerensis mi fanno una grande
impressione, e mi fa impressione ancor di più averli toccati nel mezzo del
deserto, così grandi e ancora affilati. Stupefacente.
Mi sposto poco più in là, dove c’è il mercato artigianale coperto. Qui producono oggetti in cuoio, legno, metallo. Cose turistiche ma graziose, vi sono persone del posto che si comperano sandali fatti a mano, o cinture o borsellini e qualche matrona vestita con abiti coloratissimi, che si prova degli orecchini. Dietro vi è un’area dove fanno i batik, la tecnica è la stessa vista a Yogyakarta nell’isola di Giava, i disegni sono molto belli, con animali, profili di dune con le carovane del deserto, i colori vivaci ma anche tenui come le albe invernali. Poco più in là invece ci sono i telai. Lunghissimi e antichi con cui vengono tessuti i tappeti che le genti nigerine usano nelle loro dimore temporanee. Fortunatamente li ho potuti vedere bene interi e grandi in tutta la loro bellezza nel padiglione che ho visitato. Hanno colori sgargianti e disegni geometrici stupendi. Mi hanno spiegato che ovviamente hanno tutti un significato, oltre al fatto di rappresentare il gruppo etnico di appartenenza dei loro proprietari. I tessitori sono sorridenti e invitano a sedersi accanto a loro per osservare come lavorano. Il pomeriggio termina con la breve passeggiata dal Museo al Grand Hotel du Niger. L’ultima cena in questa serata di dicembre la passo invece su un tavolino, alla brezza fresca in riva al fiume Niger, circondata dai gatti del posto e mangiando le immancabili brochettes grigliate. Domattina volerò via e non nascondo di avere un po’ di malinconia.
Mi sposto poco più in là, dove c’è il mercato artigianale coperto. Qui producono oggetti in cuoio, legno, metallo. Cose turistiche ma graziose, vi sono persone del posto che si comperano sandali fatti a mano, o cinture o borsellini e qualche matrona vestita con abiti coloratissimi, che si prova degli orecchini. Dietro vi è un’area dove fanno i batik, la tecnica è la stessa vista a Yogyakarta nell’isola di Giava, i disegni sono molto belli, con animali, profili di dune con le carovane del deserto, i colori vivaci ma anche tenui come le albe invernali. Poco più in là invece ci sono i telai. Lunghissimi e antichi con cui vengono tessuti i tappeti che le genti nigerine usano nelle loro dimore temporanee. Fortunatamente li ho potuti vedere bene interi e grandi in tutta la loro bellezza nel padiglione che ho visitato. Hanno colori sgargianti e disegni geometrici stupendi. Mi hanno spiegato che ovviamente hanno tutti un significato, oltre al fatto di rappresentare il gruppo etnico di appartenenza dei loro proprietari. I tessitori sono sorridenti e invitano a sedersi accanto a loro per osservare come lavorano. Il pomeriggio termina con la breve passeggiata dal Museo al Grand Hotel du Niger. L’ultima cena in questa serata di dicembre la passo invece su un tavolino, alla brezza fresca in riva al fiume Niger, circondata dai gatti del posto e mangiando le immancabili brochettes grigliate. Domattina volerò via e non nascondo di avere un po’ di malinconia.
8 dicembre Niamey Milano in volo
Poco dopo la mezzanotte si va in aeroporto, il volo per tornare
è alle 3.45 e per ora di pranzo sarò già a casa.
Il deserto mi manca già, e non ne sono neanche del tutto
fuori. Mi accade così anche quando, appena decollata da Kathmandu, vedo
apparire sopra la coltre di polvere e smog il Ganesh Himal e a seguire il Manaslu,
poi l’Annapurna IV, il Machhapuchhare, la South dell’Annapurna che con l’Hiunchuli,
chiude il campo base dell’Annapurna I ai suoi piedi, con il grande abbraccio
del suo Santuario. Quando scorgo il corridoio della Kali Gandaki nell’Upper
Mustang che si perde fino al Tibet e poi arriva il Dhaulagiri ho sempre gli
occhi velati dalle lacrime, poi sorrido perché tanto so che poi ritorno sempre.
Ecco voglio tornare anche qui. Il deserto del Sahara mi ha dato sensazioni
simili a quelle che provo in Himalaya e, come ho imparato a fare lì, anche qui
ho lasciato indietro qualcosa, per poi poter tornare, e rivivere e far crescere
queste nuove emozioni. Ho promesso a Mahaman, e anche a Michele, che sarei
tornata l’anno prossimo per le feste di settembre.
Ho ancora tanto da “vivere” sulla mia pelle in questi luoghi che sono baluardi di libertà, spazi sconfinati e che, come dico sempre, non hanno confini se non sulle carte geografiche, tracciati dall’uomo colonizzatore. Luoghi che sono in realtà liberi come il popolo che li abita, i Tuareg, sì proprio loro, il popolo della sabbia, il popolo di Mano Dayak, il loro leader più carismatico che ha dedicato la vita per mantenerne intatta l’identità e difenderli dalle razzie, dai soprusi e dalle ingiustizie che, come ogni minoranza della Terra, hanno dovuto subire per anni. Mano Dayak se ne è andato proprio in un dicembre di qualche anno fa, il 15 dicembre del ’95, lasciando in eredità il sogno Tuareg, il sogno dei popoli del deserto liberi di vivere in libertà. Ecco io voglio accarezzare di nuovo il suo sogno, qui in Niger.
Ho ancora tanto da “vivere” sulla mia pelle in questi luoghi che sono baluardi di libertà, spazi sconfinati e che, come dico sempre, non hanno confini se non sulle carte geografiche, tracciati dall’uomo colonizzatore. Luoghi che sono in realtà liberi come il popolo che li abita, i Tuareg, sì proprio loro, il popolo della sabbia, il popolo di Mano Dayak, il loro leader più carismatico che ha dedicato la vita per mantenerne intatta l’identità e difenderli dalle razzie, dai soprusi e dalle ingiustizie che, come ogni minoranza della Terra, hanno dovuto subire per anni. Mano Dayak se ne è andato proprio in un dicembre di qualche anno fa, il 15 dicembre del ’95, lasciando in eredità il sogno Tuareg, il sogno dei popoli del deserto liberi di vivere in libertà. Ecco io voglio accarezzare di nuovo il suo sogno, qui in Niger.
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