non ho potuto fare a meno di pensare ai miei amici Sherpa.
Ormai ne ho un cospicuo numero. Gente semplice, umile, sono ragazzi che un sorriso non lo negano mai a nessuno. Poco meno di un mese fa mentre mi riposavo dai 45ºC sulla branda a Mandalay in Birmania, finalmente è arrivata la connessione wifi, e con lei i messaggi dal Khumbu: "Didi, you can't imagine, we're all shocked" mi scriveva Pasang da Gorak Shep. Tenzing da Namche invece scriveva: "So sorry for what's happened in Everest". Som da Gokyo, il mio fratellino, la mia fidata guida:"Didi I'm ok, but here 18 Sherpa people are still missing".
Povera gente, instancabili lavoratori, padri di famiglia, figli devoti. Le loro dure vite sono valse solo i 4000 dollari dati alle loro famiglie in risarcimento per la loro perdita. "È stata una disgrazia, una tragica fatalità che può accadere a chi di mestiere fa il portatore o la guida in alta quota".
A chi deve montar scale e fissar corde per il circo dell'Everest, dove un esercito di stranieri mascherati con gli erogatori, pianteranno la loro bandierina sul tetto del mondo. Che importa se poi chi ci lavora muore? "È il rischio del mestiere". Gli Sherpa sanno che possono restarci secchi, quindi volendo potrebbero scegliersi un lavoro più sicuro. "Alla fine lo fanno solo per i soldi".
Quando nasci nel Khumbu, nel Solu, cresci aiutando tuo padre e tua madre a coltivare i terrazzamenti, porti pietre sulla schiena, frasche, legname e da lì poi porti le sacche dei turisti e con quei soldini che ti danno di mancia comperi più riso, magari a fine anno, insieme ai tuoi fratelli, riesci anche a comperartici una capra. Poi vedono che sei forte e resisti e ti prendono a lavorare per qualche grosso travel agent locale.
Le mance dei trekkers a volte sono meglio di una paga. Se tiri la cinghia puoi diventare anche guida. Tuo figlio potrà studiare in una scuola migliore e potrai prendere le gocce di collirio per la cataratta di tua madre, che a furia di spezzarsi la schiena sotto il sole che picchia a più di 3500 metri s'è rovinata pure la vista. Certo uno Sherpa, un Magar o un Rai può fare anche altro nella vita. Non lo vieta nessuno, forse glielo impedisce solo la comune natura umana, che abbiamo tutti, con la nostra voglia di migliorarci, di migliorare le nostre condizioni di vita, la voglia comune a tutti gli esseri umani di cercare opportunità per una vita migliore.
Con ste riflessioni mi sono tornati in mente i momenti concitati l’anno scorso a Maggio a Gorak Shep, allo Yeti Resort. Stavo bevendo un tea con Som, Pasang Sherpa e mio padre. La dining era piena zeppa di trekkers alle 11 di mattina. C’era un gruppo di alpinisti dell’esercito americano del team “7summits” che erano al tentativo della loro 7° vetta, l’Everest. Il tetto del mondo se l’erano tenuto per ultimo. C’era una confusione e un bel movimento coi coreani che volevano foto con chiunque in ogni posa. Pasang Sherpa parlava con due suoi porters e con Som della zuffa di Ueli Stek e Simone Moro con gli Sherpa su all’Everest. Era arrabbiato perché a causa di questa cosa gli Sherpa ne sarebbero usciti con la reputazione macchiata. Il senso dei loro discorsi era: “Si fa presto a demonizzare gente senza nome che lavora, quando ci sono di mezzo noti alpinisti di fama internazionale”.
Ricordo che a un certo punto ho smesso di ascoltare le loro discussioni, certa che tutta la verità non sarebbe mai saltata fuori.
Io non conosco personalmente questi due alpinisti, ma mi pareva davvero strano sentire che fossero stati aggressivi verso gli Sherpa. E conoscendo quanto sia mite il popolo Sherpa sono stata ancora più incredula a pensare che degli Sherpa, delle guide di alta montagna, fossero stati aggressivi con degli occidentali. Senza gli Sherpa, la maggior parte degli scalatori non sarebbe in grado di salire sulla montagna, loro sanno e conoscono la loro terra meglio di chiunque altro. Tutto ciò era assurdo. Poi proprio lassù, in un posto così sacro per tutti. Quasi un sacrilegio.
I Bharya, i portatori, vengono sommariamente chiamati Sherpa dai trekkers. Certo molti di loro sono di etnia Sherpa, ma non tutti, tanti sono Magar, Gurung, Rai o Limbu o di altre parti del paese, zone povere, molto povere. Il termine “portatore” in nepalese si dice “Bharya”. Sherpa, in Tibetano invece vuol dire genti dell’Est, e sono un’etnia che da sempre si sposta tra Tibet e Nepal con le mandrie di Yak trasportando sale e barattandolo con l’orzo, la tsampa, la base della loro alimentazione.
Anticamente originari delle montagne tra Tibet e Nepal e poi migrati nelle valli nepalesi, adesso i più fortunati di loro hanno in mano il grosso del turismo, dei trekking, dell’alpinismo, dei resorts e lodges sul tetto del mondo. Ne ho incontrati tanti che son rimasti umili portatori, che camminavano curvi e schiacciati dai pesi sulle spalle che erano enormi rispetto alla loro corporatura. E ha voglia la gente a dirmi che sono abituati, che hanno fibra forte. Quelli che ho visto erano tutti più giovani di me ma sembrava avessero almeno 10 o 20 anni in più rispetto alla loro età.
Ne ricordo uno che aveva sulla schiena sette materassi, un
altro che trasportava quattro bombole del gas, poi ce ne n’erano due che avevano
quattro porte di legno caricate sulla schiena, un altro che aveva talmente
tante taniche addosso che gli si vedevano solo le gambe dai polpacci in giù. Ho
incontrato un gruppo di Bharya che si coprivano il viso con un fazzoletto e erano
curvi sotto gerle ripiene di carni macellate chissà quanti giorni fa. Impressionante.
Quando ho conosciuto Tsering anni fa, mi ha raccontato che,
mentre trasportava 60kg di materiale, era scivolato sul percorso spaccandosi
l’infradito e slogandosi la caviglia. Aveva un cotechino al posto del piede e
non riusciva a reggersi in piedi, ma era più preoccupato dal fatto che non
sapeva se sarebbe riuscito a portar su il materiale al Campo Base, piuttosto
che per la sua caviglia. Gli avevo dato del ketoprofene, raccomandandogli di
stare a riposo qualche giorno e di fare impacchi freddi. Ora la mia Mamma
Sherpa, la mamma di Tsering, ogni volta che torno a Punghi Tanga mi accoglie
con una Khata e mi abbraccia come una figlia, una figlia che ogni tanto torna a
casa a trovarla, sul tetto del mondo.
Quando sei in Himalaya e fai trekking, la maggior parte dei
portatori che incontri ha tre sacconi da spedizione sulla schiena, legati tra
loro con una corda e sorretti sulla sommità della loro testa, cosa che gli
mette in tensione tutti i tendini e i muscoli del collo. Uno dei figli di Ama
Sherpa, la mamma Sherpa di Pat, qualche anno fa è scivolato su un gradino del
sentiero per Lobuche, ha perso l’equilibrio e nella caduta, la corda che
reggeva i sacconi gli ha spezzato l’osso del collo per il peso. Quanti morti,
quante vite spezzate. Per fortuna gli altri suoi due figli hanno uno una guest
house a Namche Bazaar e l’altro una agenzia di trekking e non fanno i portatori.
I portatori sono come piccole formiche che trasportano
foglie e sassolini che sono il triplo di loro.
I Bharya, come le formiche a piedi ai piedi degli 8000.
Senza di loro la stragrande maggioranza di noi occidentali
non salirebbe a fare trekking turismo nelle valli nepalesi. E pochissimi
sarebbero in grado di salire i giganti della terra senza il loro aiuto. L’Everest
viene totalmente attrezzato due volte l’anno. Almeno un centinaio di nepalesi
salgono sul tetto del mondo, montando scale, corde fisse, spianando e
attrezzando la via che i turisti alpinisti di tutto il mondo dovranno
affrontare per arrivare in cima al tetto del mondo con le spedizioni
commerciali, aiutati da almeno una guida ciascuno che li spinga e tiri su e da
un portatore che porti loro in cima le bombole d’ossigeno che gli serviranno
per arrivare in vetta a passo di lumaca. L’Alpinismo è un’altra cosa, come
diceva Bonatti, questo è il turismo degli ottomila. Io dico che ognuno ha i
suoi limiti e il suo Everest. Il mio è sempre lì, e io lo guardo con rispetto e
riverenza dal basso, ai piedi delle sue pendici, ascoltando i segnali che la
montagna mi manda per farmi capire fino a quanto mi posso a lei avvicinare e
mai pensando di essere più forte, più audace, più furba di lei.
Non andate mai in Himalaya senza un Bharya e se potete fatevi sempre accompagnare da una guida locale o da uno Sherpa "per un sacco di buoni motivi".
Gran lavoratori, mesti, disponibili, forti, unici, fedeli e affidabili compagni di avventure. Questi sono per me gli Sherpa. Non ce n’è uno, tra quelli che conosco, che non mi abbia trattata come una regina da quando vengo a camminare in Himalaya.
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