La Cambogia e il suo popolo rappresentano uno dei più grandi esempi di forza di volontà e forza dello spirito di sopravvivenza, contro tutto, contro le condizioni avverse, contro il destino, contro il terrore e l’orrore di una delle dittature più spietate e violente che la storia ricordi.
Lasciati gli splendori della piana di Angkor, dopo un viaggio della speranza di sei ore, mi sono vista l’accesso interdetto alla zona del Phra Wiehar, situata a nord, al confine con la Thailandia, per via di scaramucce tra i due eserciti Thai e Khmer, quindi per la sicurezza ho dovuto fare dietro front e rimediare verso la zona di Kokher.
L’Area nord occidentale del paese è piuttosto remota ed è nota essere una delle zone più minate al mondo. Qui i cartelli rossi col teschio bianco con sotto scritto MINE sono disseminati un po’ ovunque nelle campagne su paletti di cemento o nelle foreste inchiodati ai tronchi degli alberi. Spesso qualche vacca salta per aria e i contadini che accorrono per recuperare le sue carni fanno la stessa fine. Le mine spesso e volentieri sono state disseminate a grappoli e dove ce n’è una ce ne sono altre due o tre, vicine vicine, pronte a detonare in gruppo per sortire effetti migliori. Spesso succede che piccole mine superficiali inneschino detonazioni a catena di mine più grandi sepolte più profondamente nel sottosuolo. A Kokher ho visto parecchi cartelli rossi e sono passata a visitare un campo di sminamento. Ogni area bonificata è catalogata e viene segnalata con un enorme cartello blu della CMAC Cambodian Mine Action Center che riporta i metri quadrati in cui è stata fatta la bonifica, le mine per metroquadro rinvenute e le mine totali raccolte. Dove ci sono i cartelli della CMAC è sicuro. Altrimenti è severamente proibito allontanarsi dai sentieri tracciati. Non si può neanche andare dietro le frasche per i bisognini. Meglio farsi vedere con le mutande calate piuttosto che vestiti ma al proprio funerale. La CMAC è una delle maggiori organizzazioni che con sovvenzioni e donazioni internazionali si occupa delle bonifiche dei territori minati in tutta la Cambogia: http://cmac.gov.kh/ e in 23 anni di lavoro ha sminato più di 70000 ettari di terra.
Un caro amico di Phrom, il mio inseparabile driver, faceva lo sminatore in un campo di sminamento proprio vicino a Kokher. Avevano finito la bonifica di una vasta area. Il camioncino era sullo sterrato e tutti stavano caricando le mine recuperate e disinnescate. La strada era “pulita”. La Cambogia è un paese dove piove un sacco. Sono più i mesi di pioggia che quelli secchi. Il terreno è inzuppato in profondità e spesso e volentieri la pioggia fa riaffiorare ciò che non dovrebbe. Il suo piede di fianco alla ruota e l’amico di Phrom è saltato per aria. Ha perso entrambe le gambe ed è morto dopo poco tempo. Al tempo della guerra del Vietnam gli Stati Uniti hanno seminato tonnellate di mine con i loro ruggenti B52. I cambogiani avevano fatto il grande errore di ospitare nei propri territori di confine i vietcong. Gli USA negli anni settanta coi loro B52 hanno bombardato la Cambogia facendo 250.000 vittime. Questi fatti sono stati purtroppo determinanti per il cupo futuro che ebbe di lì a poco il paese che un tempo aveva dato luce ai fasti dell’impero Khmer, innescando la miccia della rabbia popolare contro il governo a favore dei Khmer Rossi, creduti allora essere difensori dei popoli.
La sera nello sperduto villaggio ai piedi della collina del Phra Wiehar ceniamo in un punto di ristoro locale a due passi dalla casa della famiglia khmer che ci ospita. Phrom e io ordiniamo due piattoni di noodles saltati con pollo e verdure e ci mettiamo in un tavolino a parte, lontano dalla luce dei neon che sono infestati da insetti di ogni tipo. Finalmente c’è una bella brezza fresca. E’ una manna visto il clima afoso e umido che c’è da queste parti. Phrom divora i suoi noodles e mentre mangia avidamente inizia a raccontare in modo animato il suo vissuto durante gli anni bui di Pol Pot.
Non era concesso non essere produttivi. Lavorare è un dovere di tutti per il benessere di tutti, tutti dovevano essere impegnati nella coltivazione dei campi. Non era ammesso non lavorare. Il pasti erano cucinati dall’Angkar e consistevano in tre cucchiai di riso al giorno accompagnati da un brodo. Il resto era superfluo. Non era permesso cucinarsi il cibo da se, il popolo non aveva questo compito. Doveva essere umile e dignitoso e accettare come più che sufficiente quello che l’Angkar offriva. Chi veniva sorpreso a cucinare o a procurarsi del cibo era in evidente disaccordo col sistema e quindi andava rieducato. I bambini avevano il compito di assicurarsi che tutti seguissero le regole e dovevano riferire alle autorità eventuali infrazioni commesse dalle persone. Phrom si occupava di raccogliere il fertilizzante per i campi e di far si che rendesse il più possibile. Le persone, erano obbligate a lasciare sulla porta dei propri alloggi, delle camerate, le pentole con gli escrementi che venivano ritirate ogni mattina. Sì le pentole. Perché non potendole utilizzare per cucinare l’Angkar aveva disposto che la gente le utilizzasse per raccogliere gli escrementi “domestici” perché tutto doveva avere un’utilità per esistere. Phrom, al suono della campana, faceva il suo giro di raccolta, poi recuperato tutto, mescolava i rifiuti umani con il letame vero e proprio e si assicurava che il fertilizzante fosse dosato nel modo migliore, perché l’Angkar per i campi voleva il meglio e disponeva che i suoi compagni lavoratori addetti ai fertilizzanti tastassero con mano e gusto il prodotto del lavoro che avrebbe fatto crescere raccolti rigogliosi. Tutti i giorni Phrom, finiti i lavori di produzione del fertilizzante, vomitava di nascosto. Una sera arrivò da lui un bimbo più piccolo con un serpente in mano. la fame dev’essere una gran brutta cosa. Un bimbo guardiano ovviamente se ne accorse.
Fu così che il bimbetto del serpente, spaventato, disse che Phrom lo aveva mandato a caccia di serpenti, disse che Phrom era il suo comandante. Phrom fu arrestato. Lasciato qualche giorno in una cella angusta e buia senza cibo e poi interrogato sulla sua disobbedienza. Lui negò ogni responsabilità in merito. La sua unica colpa era stata dar retta a un bimbo più piccolo di lui e affamato. Lo portarono fuori, davanti a tutti i compagni del campo. Venne legato su una grossa asse di legno e gli dissero che se non avesse confessato lo avrebbero torturato. Io ascoltavo Phrom nelle sue descrizioni così precise e vivide che sembrava gli fossero successe il pomeriggio appena passato. Gli spaghetti oramai erano freddi. Lui negò ancora una volta. Allora i gerarchi cosparsero il suo corpo di chilli tritato, glielo misero nel naso, nelle parti intime, ovunque. Lui resistette ancora. Allora gli tapparono il naso e gli cacciarono giù a forza quasi due chili di chilli. Fu allora, sentendosi morire, che dichiarò il falso, che si dichiarò colpevole di aver chiesto al bimbo di procurare del cibo per entrambi, che dichiarò di essere pentito e di aver sempre creduto nei precetti dell’Angkar. Così davanti a tutti fu slegato, fatto alzare a forza e legato nuovamente con le braccia al tronco di un albero, affinché meditasse sul suo comportamento deviato. Lo legarono talmente stretto che pian piano gli si fermò la circolazione delle braccia e poi, con tutto il peperoncino ingerito, presto svenne, sembrando quasi morto. Il bimbo che lo aveva accusato pensò che fosse morto a causa sua e non resse il colpo. Confessò le sue responsabilità e Phrom allora venne slegato e liberato. Ci impiegò molti giorni per riprendersi, mi disse mostrandomi i segni delle corde che porta tutt’ora sui bicipiti. Del bimbo non seppe più nulla. Era stato rieducato, aveva fatto la fine che avrebbe fatto lui stesso, se la verità non fosse saltata fuori.
L’ultimo boccone di spaghetti mi va giù un po’ a forza. Ordiniamo il tea. Phrom ha perso sei fratelli. Non sa più che fine abbiano fatto. Rieducati, dispersi, uccisi, eliminati.
Non voleva più fare il raccoglitore di fertilizzante. Così si è inventato di essere un provetto massaggiatore. E’ stata la sua salvezza. Il gerarca del suo campo lo prese in simpatia, anche per la forza con cui si era ripreso dalle torture.
Una volta all’anno, in occasione dell’anniversario della liberazione dai colonizzatori francesi l’Angkar permetteva alle famiglie di riunirsi. Un giorno solo all’anno. Ma non sempre era possibile. A volte le famiglie erano troppo distanti per riuscire in un solo giorno a raggiungersi. Quando il padre di Phrom era in fin di vita, lui non ha fatto in tempo a vederlo per l’ultima volta, neanche il fatto di essere apprezzato dal gerarca del suo campo aveva potuto essergli d’aiuto. Suo padre morì di stenti ucciso dalla malaria in un campo di lavoro e Phrom non lo vide mai più. Di sua madre seppe che, essendo troppo vecchia e priva di forze, quindi inutile, venne lasciata spegnersi senza cibo ne acqua presso il suo campo di lavoro con altre donne anziane e, quando furono quasi tutte morte in fin di vita, vennero gettate nella foresta in pasto ai cani.
Phrom mi racconta tutto questo con concitazione, con gli occhi vitrei, sgranati, ancora scosso, dopo tutto questo tempo, dalla crudeltà infinita di quegli anni. La nostra serata continua fino a notte fonda con altri agghiaccianti aneddoti. Quando rientro alla casa khmer penso che ho avuto davvero una gran fortuna a incontrare un uomo come lui. Phrom è la storia del suo paese in persona, un esempio più unico che raro di forza, determinazione, un uomo che è sopravvissuto, che è rinato, che ha perso tutto ma si è reinventato. Phrom e la Cambogia sono una cosa sola. I suoi occhi sono gli occhi della Cambogia, il suo corpo è la sua terra, il suo vissuto, è quello di altri milioni di persone che hanno visto sotto i loro occhi sparire altri tre milioni di connazionali nel nulla.